Steinbeck

Steinbeck e il “Furore” dei braccianti

L’elemento che distingue una semplice opera da un classico della letteratura si trova nella capacità di quest’ultimo di trasmettere al lettore un’immagine nitida e veritiera non solo del periodo storico in cui è ambientata la vicenda, ma soprattutto delle persone e delle classi sociali che ne sono protagoniste. In particolare, si tratta di fondere Storia, Politica, Antropologia ed emozione in modo tale da rendere impercettibili i confini di queste aree nel corso della narrazione.

Da questo punto di vista The grapes of wrath di John Steinbeck (Furore nell’edizione italiana edita da Bompiani), può essere considerato un grande classico della letteratura del ‘900.

Edito nel 1939, come riadattamento di alcuni articoli usciti nel 1936 sul The San Francisco News, fece subito scalpore e venne etichettato come “comunista” da una parte dell’opinione pubblica e dalle associazioni degli agricoltori, che ne contestarono lo spirito rivoluzionario che pervadeva la narrazione. Ciò non impedì l’enorme successo del libro che negli Usa vendette quasi mezzo milione di copie nel corso del primo anno e permette ancora oggi a Steinbeck di essere uno dei più conosciuti scrittori americani all’estero.

Il rapporto uomo-terra

In Furore viene descritta la storia dei Joad, una famiglia di contadini dell’Oklahoma costretta a lasciare le proprie abitazioni a seguito della “Dust Bowl”, la tempesta di sabbia che aveva rovinato le coltivazioni e reso gli agricoltori sempre più poveri e dipendenti dalle grandi banche d’investimento, che acquisivano progressivamente i loro campi scacciandoli dalle loro terre natie.

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L’elemento antropologico, che costituisce il fulcro della vicenda, viene rinvenuto proprio nel rapporto tra questi uomini e i loro campi. Un’unione indissolubile, intrinseca, quasi ontologica che lega l’essere umano alla terra, «piccola proprietà, quella proprietà è lui, è parte di lui, è fatta come lui» . Tanto che dall’espropriazione della terra ad opera della finanza deriva conseguentemente un graduale smembramento dello stesso tessuto familiare che non si realizza appieno solo grazie alla tenacia e al forte legame dei componenti al suo interno.
Forze centrifughe che ogni giorno mettono alla prova i protagonisti rendendoli sempre meno esseri umani, senza però riuscirne a scalfire la dignità.
Un contesto in cui è chiaro fin da subito quali siano le figure responsabili di questa rovina: le banche d’investimento e le macchine. Le prime impadronendosi della terra, e quindi della vita, dei contadini; le seconde privando il lavoro nei campi di quell’aspetto emozionale e vivo, che costituiva il principale legame tra l’uomo e la terra, rendendolo al contrario freddo, distaccato e dedito esclusivamente al profitto. Ne è esempio lampante la decisione dei produttori di lasciar marcire quintali di pesche mature soltanto per far lievitare il prezzo del prodotto, impedendo allo stesso tempo a chiunque si avvicinasse di raccoglierle per mangiarle.

È questo il peccato originale che dà vita a tutto il resto mettendo in moto il furore degli espropriati. Perché la mancanza di terra porta alla fame, e dalla fame deriva la rabbia. Ma solo se quest’ultima riesce ad essere incanalata da tutti i lavoratori verso uno scopo comune è possibile una ribellione ed un miglioramento della vita reale.

La componente marxista e il ruolo della donna

Tale condizione porta a valutare l’aspetto più propriamente politico-filosofico del romanzo nel palese riferimento alla coscienza di classe marxista, ed in particolare al processo di trasformazione dalla “classe in sé” alla “classe per sé”. Un percorso che rende consapevoli i proletari, in questo caso i braccianti, della necessità di un alleanza di classe contro l’ingiustizia perpetrata dai padroni, in questo caso i proprietari terrieri e le grandi società finanziarie.
Se però Marx pensava ad uno Stato senza classi come ultimo approdo della Rivoluzione, per Tom Joad, il protagonista del romanzo, l’unico obiettivo è quello di avere un terreno da coltivare che permetta alla sua famiglia di essere autosufficiente e ricucire quel rapporto che con le sofferenze si è andato a deteriorare.
Una prospettiva che deve essere considerata per come essa appare, perché i contadini dell’Oklahoma sono consapevoli di non poter aspirare ad una vita migliore di quella improntata ad una modesta sopravvivenza. E ciò basta perché l’importante è mantenere l’unità e continuare quel legame sincero con la madre terra.

In tale contesto, dal punto di vista letterario, è possibile osservare una forte caratterizzazione dei personaggi che mantengono un preciso ruolo comportamentale e morale per tutto l’arco del racconto.
“Ma’” è la figura principale che tiene unita la famiglia e la guida in ogni situazione, in particolare nei momenti di difficoltà. Tom, il figlio appena uscito di prigione, sente in ogni momento la responsabilità di provvedere al benessere familiare, prodigandosi continuamente cercando un qualsiasi lavoro.

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Accanto ai due pilastri si stagliano le altre componenti: da Casy, il predicatore in crisi esistenziale importante per la tenuta psicologica collettiva, ad Al, il giovane fratello di Tom che in fase adolescenziale ha solo due pensieri: le ragazze e le auto.
Completano il nucleo Noah (il primogenito), i nonni, il padre, lo zio, la giovane coppia in procinto di avere un figlio e i due bambini.
È opportuno sottolineare che nella descrizione dei Joad, pur essendo in presenza di un’organizzazione tradizionale in cui gli uomini provvedono alla (in)stabilità economica e le donne alla cura dei figli e della casa, sia la madre il vero capo famiglia che ha il compito di non far sprofondare una situazione sempre più critica. Questa lotta continua per la “sopravvivenza morale” è per Ma’ l’unico vero motivo di vita, condizione che deriva dal fatto stesso di essere donna, come lei stessa insinua più volte: «Per l’uomo la vita è fatta a salti […] Per la donna invece è tutto come un fiume […] A me mi pare solo che tutto quello che facciamo serve per continuare […] Uno deve solo cercare di viversi la giornata, la giornata e basta.» .
Anche nei frangenti più critici, quando si tratta di scegliere tra una vita e un’altra, a fianco al necessario cinismo resiste quella sensibilità e umanità, caratteristica di una donna forte che resta pur sempre una madre preoccupata della felicità dei suoi figli e consapevole del suo ruolo cruciale.

In Furore tutti i personaggi, chi prima e chi dopo, hanno un crollo psicologico ed esternano le loro preoccupazioni riguardo al futuro. Ma la “mater familias” no, perché dal suo stato d’animo derivano le sorti di tutto il gruppo, un suo vacillamento potrebbe portare alla disperazione e alla disgregazione del nucleo familiare.
Ciò che colpisce in Steinbeck è dunque la capacità e la forza del genere femminile di trovare il meglio in ogni situazione, avendo sempre come fine ultimo il bene della famiglia. Che poi questa meta sia semplicemente la prosecuzione di una vita tranquilla, e in certi casi la semplice sopravvivenza, non è importante perché nelle condizioni presenti nessuno può sperare di avere soddisfazioni maggiori.

La famiglia e il furore

Il rapporto uomo – terra e il ruolo della donna nel quotidiano non sono gli unici spunti d’interesse che fornisce l’opera.
Un ulteriore elemento su cui ruota il romanzo è rinvenuto nella messa in discussione dei maggiori pilastri su cui ruota la vita umana. I braccianti sono privati, non per loro colpa, di tutti quegli elementi, materiali e non, che per la società occidentale caratterizzano l’esistenza umana.

In particolare si osserva una progressiva e continua depredazione di tutte le sicurezze su cui i Joad potevano contare, mettendo a dura prova la resistenza della famiglia senza che quest’ultima perda però l’unità e la compattezza iniziale.
Senza scendere nel dettaglio, è lo stesso concetto di vita familiare ad essere stravolto dalle vicende quotidiane: dalla perdita della casa, alla scomparsa di alcuni membri durante il viaggio, ai rapporti con le altre famiglie di braccianti (a volte messe in crisi dallo spirito di sopravvivenza che le obbliga a scontrarsi tra loro). Fino ad arrivare al rapporto tra l’idea di giustizia e la legge che in Steinbeck non coincidono affatto, anzi sono antitetiche. Su quest’ultimo frangente è illuminante il ruolo degli sceriffi e delle forze di polizia, simboli dell’intolleranza e del razzismo verso gli Okie, che non riconoscono come esseri umani, e verso i quali, al pari della popolazione locale, provano timore e disprezzo.

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E così la Route 66, simbolo della libertà e degli immensi spazi che rendono unici gli Usa, diventa teatro di fatica, sofferenza e morte di coloro che non si arrendono e che non rinunciano alla speranza di una vita migliore. Immagini che non è difficile paragonare alle traversate nel Mediterraneo compiute dai migranti del ventunesimo secolo, e che dovrebbero far riflettere sull’inevitabilità di questo fenomeno.

Anche lo stesso concetto di self made man, tanto caro agli americani, assume qui un valore diverso: per quanto sforzo e impegno possa essere profuso, per chi arriva in California non sembra essere possibile sperare in una condizione migliore della pura sopravvivenza. Chi viene dall’ovest non può, e non deve, illudersi. L’onestà e la tenacia non portano al successo e al progresso individuale, ma solo all’arricchimento dello sfruttatore.

Nel romanzo di Steinbeck si possono dunque rilevare elementi di realismo che non conducono ad una vera e propria morale conclusiva.
L’intento è quello di illustrare la condizione di vita di una classe sociale, anzi, di una parte significativa della popolazione americana, attraverso uno stile il più vicino possibile alla realtà. L’uso frequente del discorso diretto, lo slang caratteristico e la raffigurazione del pensiero contadino, improntato ad affrontare ogni questione dal punto di vista concreto e immanente, rendono l’opera scorrevole e verosimile, raffigurando la situazione di vita che realmente vivevano i contadini dell’ovest negli anni successivi alla crisi del ’29.

Non esiste la terra promessa e il sogno americano si rivela soltanto un’illusione davanti alle ingiustizie poste da un sistema improntato sull’arricchimento di pochi e la sofferenza di molti.
In un contesto del genere l’unica alternativa alla sottomissione rimane dunque la dignità e il furore di chi, come Tom Joad, va incontro ad un destino amaro ma con la speranza che la propria azione possa riportare quel senso di giustizia legato alla terra (che ricorda il concetto di nòmos teorizzato da Carl Schmitt qualche decennio più tardi), di cui si sono perse le tracce.

 

Credits:

“Road-Trips-Grapes-of-Wrath” by Paul’s Thing Gallery

“The Grapes of Wrath, by John Steinbeck” by Make It Old

“Route 66” by JaviC

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