Costituente

1. Il referendum istituzionale e l’Assemblea Costituente (1946-1947)


Inizia il nostro viaggio nella storia della prima Repubblica (clicca qui per la presentazione). In questo primo capitolo, dopo una breve introduzione, si andrà alla scoperta dei due principali avvenimenti istituzionali dell’immediato dopoguerra: il referendum del 1946 e i lavori dell’Assemblea Costituente. 

Il CLN e i governi di unità nazionale

I due eventi che sancirono la nascita della Repubblica italiana, il referendum istituzionale e il successivo operato della Costituente, si inserivano in un periodo delicato e alquanto travagliato come quello dell’immediato dopoguerra.

Sebbene la lotta partigiana avesse ricevuto il consenso generale della popolazione, serpeggiava il timore di una possibile deriva rivoluzionaria ad opera della componente comunista e socialista presente all’interno delle forze di liberazione. È facile intuire come queste preoccupazioni giocassero un ruolo sostanziale anche nei rapporti tra i partiti del CLN.

I primi governi post-conflitto di Bonomi, Parri e (fino all’estate 1947) De Gasperi, vedevano la partecipazione di tutti i partiti antifascisti che, in un sistema ancora molto fragile, avevano deciso di mettere da parte le questioni in sospeso, almeno per il momento. Un approccio di tal genere fu possibile grazie alla presenza di personalità del calibro di De Gasperi e Togliatti, che compresero quali fossero le priorità di un paese che fino all’aprile del 1945 aveva vissuto una guerra civile quotidiana.

Con la “svolta di Salerno” dell’aprile 1944, Togliatti aveva infatti rimandato la questione istituzionale e le diatribe sul rapporto con gli altri partiti antifascisti, ponendo le basi per la successiva formazione del CLN. Tale disponibilità, unita alla capacità di mantenere un equilibrio tra le necessità democratiche italiane e il legame del Pci con l’Urss, hanno reso il compianto leader comunista uno dei grandi protagonisti nella nascita della Repubblica italiana.

L’altra grande figura della ricostruzione fu senz’altro Alcide De Gasperi. Il segretario Dc, grazie anche ai continui contatti con gli Usa, fu l’artefice del posizionamento italiano all’interno dell’alleanza atlantica riuscendo ad ottenere ingenti aiuti economici nell’ambito del “Piano Marshall”.

Il contesto appena illustrato faceva da sfondo alla genesi della Repubblica italiana, avvenuta a seguito del referendum del ‘46 e dei lavori dell’Assemblea Costituente.

Il referendum istituzionale

Le posizioni dei partiti

La decisione di indire un referendum per la scelta della forma di Stato e per l’elezione di un’assemblea che redigesse la nuova Costituzione (come previsto dal decreto luogotenenziale del 25 giugno1944, n.151), fu il risultato di un compromesso atto a garantire il maggior consenso possibile intorno ad una scelta che creava non poche divisioni tra la popolazione e all’interno degli stessi partiti.

Se infatti a sinistra era diffusa la preferenza verso la repubblica, nella Dc e nel mondo ecclesiastico vi erano forti resistenze e timori nei confronti di un sistema che, secondo il pensiero confessionale, poteva essere il preludio alla rivoluzione socialista. Le cosiddette “forze antisistema” all’epoca raccoglievano circa il 40% dei consensi, e sarebbe stata proprio la paura del rosso il principale collante del voto alla Dc per tutto il periodo della prima Repubblica.

L’esistenza di un nutrito fronte monarchico nel paese portò De Gasperi a dichiarare la libertà di voto al proprio elettorato in occasione del referendum. All’epoca tutte le forze politiche erano consapevoli dell’importanza di tenere unito il paese attraverso una politica moderata e lontana da decisioni drastiche che avrebbero potuto far ripiombare il paese nel caos.

È alla luce di questi ragionamenti che deve essere letta la scelta del metodo referendario e del meccanismo proporzionale a suffragio universale per l’elezione dei membri della Costituente. Si voleva coinvolgere l’elettorato e, allo stesso tempo, capire quale fosse il consenso reale di ogni partito in ambito nazionale.

Parimenti è utile osservare come i primi due presidenti della Repubblica (De Nicola ed Einaudi), fossero due monarchici. L’unità democratica fu mantenuta anche grazie a queste importanti decisioni.

Con questo scenario si arrivò alle elezioni amministrative del marzo-aprile 1946, le prime dell’Italia liberata a cui parteciparono anche le donne. Si capì subito che il nuovo stato avrebbe visto la contrapposizione tra due grandi blocchi: la Dc e le sinistre (il Pci e l’allora Psiup si presentavano con un programma comune), che ottennero rispettivamente 2354 e 2289 comuni su un totale di 5722.

Allo stesso periodo risale anche l’emanazione del decreto luogotenenziale n.98 del 1946, con il quale si procedeva ufficialmente all’istituzione del referendum istituzionale che si sarebbe svolto a giugno.

La campagna elettorale e il voto

A sconvolgere la situazione però fu la decisione del Re Vittorio Emanuele III di abdicare in favore del figlio Umberto II ad un mese dal voto. Tale scelta aveva chiaramente l’obiettivo di riabilitare la Corona a seguito della fuga del Re a Brindisi (successiva all’armistizio del 1943) tentando di far dimenticare le responsabilità avute in occasione della marcia su Roma del 1922. La tempistica aveva surriscaldato gli animi e riacceso le speranze dei monarchici.

La campagna elettorale, oltre al dilemma monarchia-repubblica, era però terreno di scontro politico e culturale. Pci e Dc portarono avanti una propaganda molto forte dal punto di vista simbolico che doveva far breccia nel proprio elettorato di riferimento. Difesa del lavoro da una parte, voto per la famiglia e per la patria dall’altra. Era evidente la scarsa condivisione di principi comuni a tutte le forze in campo, e in molti casi si arrivò a scontri violenti dovuti a contrapposizioni culturali e sociali e non solo politiche.

Costituente
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Tuttavia, il risultato del referendum del 2 giugno fu inequivocabile: il 54% dei suffragi fu espresso a favore della repubblica, contro il 46% della monarchia. Ancora una volta, però, l’Italia era divisa in due: il centro-nord a trazione repubblicana e il sud prevalentemente monarchico, con preferenze per la Corona che arrivavano al 70% in Campania e Puglia.

La parallela elezione della Costituente vedeva invece il successo della Dc al 35% (207 seggi), a cui seguiva il Psiup al 20,7% (115 seggi) e il Pci al 19% (104 seggi). Le tre forze maggiori ottenevano così i ¾ circa dei consensi totali, distaccando le altre formazioni minori tra cui i liberali (uniti alla Democrazia del Lavoro di Bonomi) al 6,8%, il partito dell’Uomo Qualunque al 5,3%, i repubblicani al 4,4% e i monarchici al 2,8%. Il partito d’Azione otteneva un modesto 1,8%.

A seguito del voto si erano però susseguite polemiche riguardo la modalità di conteggio dei voti, con il ricorso di alcuni giuristi di Padova per i quali il suffragio totale doveva comprendere anche le schede bianche e nulle. Nonostante l’incontrovertibilità del risultato, a concludere la contriversia ci pensò la Corte di Cassazione che, due settimane dopo il voto, respinse il ricorso inaugurando la stagione della Costituente.

L’Assemblea Costituente

L’organizzazione dei lavori

Conclusa la polemica sul voto, si aprirono i lavori per l’Assemblea Costituente. Un’analisi completa sull’operato dell’organo non è possibile in questa sede a causa della grande mole di argomenti cui ci si dovrebbe dedicare. Ci si limiterà dunque ad illustrare lo spirito costruttivo, anche se non privo di confronti accesi, e le principali posizioni portate avanti dai partiti durante la discussione.

Composta da 552 membri, e con sede a Montecitorio, nell’assemblea erano rappresentate proporzionalmente tutte le principali forze politiche, portatrici di ideali diversi tra loro. Come presidente fu nominato Giuseppe Saragat (poi dimissionario e sostituito da Umberto Terracini).

Dal punto di vista organizzativo venne istituita la Commissione dei 75, presieduta da Meuccio Ruini, a cui fu dato l’incarico di preparare un progetto di Costituzione che sarebbe stato discusso dall’assemblea plenaria a partire dal marzo 1947.

La Commissione era a sua volta suddivisa in tre sottocommissioni: “Diritti e doveri dei cittadini”, “Organizzazione costituzionale dello Stato”, “Diritti e doveri economico-sociali-culturali”.

Le diverse idee di Costituzione

Per quanto riguarda le posizioni dei partiti, se vi era un generale consenso intorno alla forma di governo parlamentare, differenti erano le idee su quale dovessero essere le finalità del testo e l’esatta conformazione degli organi costituzionali.

Il Pci faceva riferimento al modello della “Costituzione indirizzo”, in cui i diritti sociali erano considerati l’ispirazione verso la formazione di una democrazia progressiva. Secondo tale visione un ruolo centrale lo avrebbe giocato il Parlamento.

Si tratta di quello status che Ingrao avrebbe definito “socializzazione della politica”, per cui l’assemblea doveva diventare il luogo di discussione e confronto tra le forze politiche non fini a se stessi, ma intesi nel senso di progresso e costruzione concreta delle volontà politiche. Per arrivare a ciò era necessaria la superiorità del potere legislativo rappresentata da un Parlamento monocamerale (che formulasse e controllasse l’esecuzione delle leggi), e dall’assenza di organi di controllo come la Corte costituzionale.

Tuttavia, la storia repubblicana ci ha mostrato come in Italia il Parlamento sia sempre stato un soggetto attivo, ma spesso privo di quella pars construens agognata dai costituenti.

“Con Pietro Ingrao” by Montecitorio is licensed under CC BY-ND 2.0

Se il Pci faceva dei diritti sociali il proprio cavallo di battaglia, la Dc vedeva come elemento centrale del nuovo testo costituzionale l’individuo e la famiglia.

Coerentemente a quanto sosteneva il Mouvement républicain populaire in Francia, lo Stato doveva riconoscere e garantire i diritti fondamentali e le libertà della persona intesa sia singolarmente, sia a livello di comunità intermedie (famiglia, comunità territoriali e religiose) come  parte integrante della società italiana. Queste convinzioni vennero espresse già nel settembre 1946 nella prima sottocomissione, con il celebre ordine del giorno Dossetti che, pur non votato, avrebbe costituito la base per la formulazione dell’attuale articolo 2 della Costituzione.

In riferimento alla forma di governo, la Dc si schierava a favore di un bicameralismo che desse spazio alle forme intermedie e che garantisse un equilibrio tra i poteri attraverso un governo autonomo e un controllo della Corte Costituzionale. Come esplicitato nell’o.d.g. Perassi nella seconda sottocommissione, venivano accantonate le ipotesi del presidenzialismo (proposto dagli azionisti), e del governo direttoriale. La scelta ricadde su un parlamentarismo razionalizzato basato sulla fiducia preventiva.

La questione religiosa

La battaglia più delicata si giocò però sulla costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, che la Chiesa voleva approvati senza modifiche. È noto come la posizione contraria del Pci subì un’inversione di tendenza nel marzo 1947, quando Togliatti comunicò ai membri del partito la decisione di votare a favore creando non pochi malumori tra le file dei costituenti comunisti.

Secondo l’opinione più diffusa tra gli storici, furono vari i motivi di una scelta tanto discussa: la volontà di non creare uno scontro su un tema così delicato su cui era chiaro il pensiero della nazione; il timore di un possibile referendum successivo; la possibilità concreta che il voto contrario comunista non sarebbe bastato a far decadere la proposta.

Al di là delle discussioni di merito, ancora una volta Togliatti dimostrò tutta la sua coscienza politica e capacità di persuasione, anche se ancora oggi si insinuano dubbi sulla legittimità di una tale decisione.

Luis Fernández-Laguna, 1921-1990., CC BY-SA 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0, via Wikimedia Commons
Quale ruolo per le Regioni?

Differenze sostanziali tra sinistra e Dc permanevano anche nella discussione relativa al decentramento istituzionale e al ruolo che avrebbero avuto le Regioni. Su questo punto il Pci era favorevole solo alle Regioni a Statuto speciale e ad un decentramento amministrativo, sostenendo che fosse troppo pericoloso affidare il potere agli enti locali in uno stato che ancora non era realmente unito. La posizione del Pci era inoltre determinata dalla volontà di attuare la riforma agraria a livello nazionale.

Il compromesso finale venne raggiunto solo quando il Pci, escluso dalla compagine del nuovo esecutivo centrista di De Gasperi, cominciò a pensare di poter trovare nelle realtà regionali nuove possibilità di governo. Nonostante l’accordo ottenuto, il processo di regionalizzazione si sarebbe completato solo negli anni ’70 con le prime elezioni regionali e l’emanazione dei decreti legislativi di attuazione.

La legge elettorale

L’ultimo argomento su cui è necessario soffermarci è quello relativo alla legge elettorale.

Su questo fronte si erano sviluppate, a partire dall’immediato dopoguerra, due diverse idee di partito: chi lo riteneva come semplice mezzo con cui l’elettore indipendente esprimeva la sua opinione in un sistema di generale alternanza fra maggioranze diverse alla guida del governo; chi invece era convinto che la coesistenza dei partiti di massa, ideologicamente incompatibili, fosse il perno su cui si sarebbe dovuta fondare la nuova Repubblica.

Alla prima corrente di pensiero appartenevano sicuramente i liberali, con Einaudi primo sostenitore, che, sulla base delle considerazioni di cui sopra, spingevano per una legge elettorale uninominale, dove l’attenzione sarebbe stata posta principalmente sulla forza del singolo candidato.

D’altra parte Pci e Dc propendevano per un meccanismo proporzionale che rendesse centrali le figure dei partiti di massa nella competizione, e permettesse una forte rappresentanza degli stessi a livello istituzionale. I socialisti già nel 1945 si erano dimostrati favorevoli ad un sistema proporzionale corretto con un “premio di maggioranza”. In ultima istanza si decise di non includere nella Costituzione alcun riferimento al metodo di elezione dei candidati.

Le leggi elettorali del 1948 avrebbero previsto per la Camera un proporzionale con liste concorrenti e la possibilità di esprimere la preferenza. Al Senato, di fatto, si aveva un proporzionale, poiché l’elezione diretta all’uninominale dipendeva dal raggiungimento di un improbabile 65% di consensi ottenuti dal singolo candidato nel collegio corrispondente. Eventualità che si realizzò in rarissimi casi.

Costituente
Esempi di manifesti alle elezioni del 1948

Conclusioni

Il risultato finale del dibattito in assemblea fu sicuramente positivo e rispecchiò il grande senso di responsabilità dei costituenti che, al di là delle diverse concezioni del nuovo Stato in formazione, non permisero la degenerazione della discussione e mantennero le diatribe governative fuori da Montecitorio.

Come sottolineò Togliatti, quando il progetto giunse in aula per il dibattito generale, si era riusciti ad arrivare ad un compromesso di alto profilo in cui ognuno aveva rinunciato a qualcosa nella prospettiva di un risultato più alto. Il progetto definitivo venne firmato dal Capo dello Stato De Nicola il 22 dicembre 1947, entrando in vigore il 1° gennaio successivo.

Ancora oggi la Costituzione italiana rimane un glorioso esempio di armonia dei principi fondativi dello stato democratico. Un testo che, nella sua semplice concretezza, svolge il compito di ispirare e guidare la popolazione verso il supremo bene pubblico.

Continua…

Credits copertina:

Referendum 1946 Repubblica o Monarchia. Milano – Ritratto femminile: giovane donna Anna Iberti – Giornale “Corriere della sera” titolo “E’ nata la Repubblica Italiana” 2 giugno 1946, Patellani, Federico

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