Continua il nostro viaggio nel mondo antico delle fake news. Dopo il caso greco (clicca qui) ci spostiamo nella Roma antica.
Quando si dice “far buon viso a cattivo gioco”: Gaio Mucio
Livio (Ab Urbe Condita, 12-13) racconta che il re Tarquinio il Superbo, dopo la sua cacciata da Roma, si rifugiò a Chiusi presso il re etrusco Porsenna che fu convinto dall’ex sovrano a marciare verso Roma per riconquistare il trono perduto.
Nel 508 a.C., durante il lungo assedio, un valoroso aristocratico romano, Gaio Mucio, per porre fine alla sofferenza della città, ormai quasi priva di viveri, si offrì di uccidere il comandante etrusco.
Così, sfruttando la conoscenza della lingua, vista la sua origine etrusca, il giovane riuscì ad infilarsi fra le linee nemiche e a raggiungere l’accampamento, dove Porsenna era impegnato nel distribuire la paga ai soldati. Gaio Mucio, armato di pugnale, attese che la sua vittima fosse da sola per colpirla ma sbagliò obiettivo, uccidendo lo scriba vestito in maniera simile al re.

Il giovane, catturato immediatamente dalle guardie, fu portato al cospetto di Porsenna, di fronte al quale non tentennò nell’ammettere che avrebbe voluto assassinarlo tanto che, per punirsi dell’imperdonabile errore commesso, mise senza esitazioni la sua mano destra sul braciere acceso. Non la tolse dal fuoco ardente per i sacrifici fino a quando non fu completamente consumata e da quel giorno divenne per tutti Muzio Scevola (il mancino).
Il re etrusco rimase favorevolmente impressionato dal sorprendente gesto e decise di liberare il giovane che, però, astutamente colse all’istante l’opportunità di ringraziare il sovrano per la clemenza ricevuta, diffondendo una falsa notizia. Rivelò, infatti, a Porsenna che trecento nobili romani avevano formalmente giurato di ucciderlo e che la sorte aveva scelto che lui fosse solamente il primo a provarci.
Questa falsa confessione spaventò non poco Porsenna che, preoccupandosi più della sorte di Chiusi che del destino dei Tarquini, decise di intavolare trattative di pace con i romani. La scaltrezza di Gaio Mucio fu ricompensata dai Romani che gli donarono un terreno al di là del Tevere, verso il confine con Veio, che prese il nome di Prato Mucio.
La sfera mitica si tuffa nell’indistinzione delle origini, ma nel mito si offre sempre, spiegato, un prototipo, un modello di comportamento o di un evento naturale, con la conseguenza che si configura come una forma e un’espressione fondamentale delle culture arcaiche, per ottenere informazioni e conoscenze dello spirito del tempo. Il mito non offre solo l’esempio dell’uomo coraggioso e scaltro, ma dimostra nuovamente come una fake news possa essere utilizzata per ribaltare a proprio favore eventi politici contrari.
Tanta fatica per nulla: Marco Porcio Catone
È il 192 a.C., Roma sta progressivamente conquistando il Mediterraneo ed è in guerra con il re di Siria, Antioco III. A condurre le operazioni militari in Grecia, teatro del conflitto, il Senato inviò il console plebeo Manio Acilio Glabrione, protetto di Scipione l’Africano, coadiuvato, in qualità di legati consolari o tribuni militari, dai patrizi Lucio Valerio Flacco e Marco Porcio Catone oltre che da Lucio Cornelio, fratello dell’Africano.
Il re di Siria venne duramente battuto nel 191 a.C. alle Termopili e sconfitto definitivamente a Magnesia nel 189 a.C. da Lucio Cornelio Scipione che da quel momento fu soprannominato l’Asiatico. Nello stesso anno a Roma si tennero i comizi per la carica di censore e uno dei candidati era quell’Acilio Glabrione, amico degli Scipioni e vincitore alle Termopili che, però, venne immediatamente accusato dai tribuni Publio Sempronio Gracco e Gaio Sempronio Rutilio di peculato.

Il principale testimone dell’accusa fu Marco Porcio Catone, il quale sostenne che Glabrione non versò all’erario né portò in trionfo alcuni vasi d’oro e d’argento presenti nell’accampamento di Antioco III. Ma chi era il concorrente alla censura di Glabrione? Proprio Catone e, non a caso, quando Glabrione rinunciò alla sua candidatura, i tribuni soddisfatti ritirarono l’accusa.
Così racconta l’episodio Livio (Ab Urbe Condita, 37.57.9-15;58.1):
“Nello stesso anno furono candidati alla censura molti personaggi in vista […]. Erano candidati T. Quinzio Flaminino, P. Cornelio Scipione figlio di Cn., L. Valerio Flacco, M. Porcio Catone, M. Claudio Marcello, M. Acilio Glabrione, quello che aveva vinto Antioco e gli Etoli alle Termopili. Soprattutto verso quest’ultimo piegava il favore popolare […]. Poiché tanti nobili non si rassegnavano a vedersi passare così avanti un uomo nuovo, P. Sempronio Gracco e C. Sempronio Rutilo tribuni della plebe lo chiamarono in giudizio, perché una parte del tesoro regio e della preda presa dall’accampamento di Antioco non era stata da lui recata in trionfo, né depositata nell’erario. Diverse erano le testimonianze dei legati e dei tribuni militari. M. Catone era un testimone di rilievo più degli altri; ma alla sua autorità, acquistata con una condotta rettilinea, toglieva peso la sua toga di candidato. Questi, udito come testimone, negava di aver visto nel trionfo quei vasi d’oro e d’argento che aveva visto dopo la presa dell’accampamento fra l’altra preda tolta al re. Alla fine Glabrione dichiarò di ritirare la sua candidatura […] e i tribuni lasciarono cadere l’accusa”. (Traduzione di Alessandro Ronconi e Barbara Scardigli).
Per ironia della sorte nemmeno Catone fu eletto alla censura che andò, invece, a Tito Quinzio Flaminino e Marco Claudio Marcello. La vicenda mostra come spesso, sia nel mondo greco sia in quello romano, i procedimenti giudiziari possano essere trasformati in strumenti per la conquista o la distruzione del potere, attraverso la diffusione di accuse montate ad arte.
Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre…
Svetonio scrive così di Cesare (Vita di Cesare, 76-80):
“Nel resto, però il suo modo di agire e di parlare stanno ad accusarlo e così gravemente che, a quanto pare, abusò del sommo potere e a buon diritto i congiurati lo tolsero di mezzo. Infatti non solo accettò onori eccessivi […], ma permise pure che gli decretassero onori più che umani. Però la causa che davvero gli attirò un odio immenso e per lui mortale fu questa: quando tutti i senatori in massa si recarono da lui portandogli moltissimi decreti con cui gli attribuivano onori inauditi, egli li accolse restando seduto davanti il tempio di Venere Genitrice […]. Aggiunse, all’affronto, così urtante, del disprezzo verso il Senato, un fatto molto più insolente. Infatti tornando egli dai sacrifizi delle feste Latine, mentre il popolo gli indirizzava acclamazioni mai udite e smodate, uno della folla pose su una statua una corona d’alloro legata con una fascia candida. I tribuni della plebe Epidio Marullo e Cesezio Flavio dettero ordine che si togliesse la fascia alla corona e che si cacciasse in prigione quel tale: ma Cesare, dolente o perché quella menzione di lui come re aveva avuto un infelice esito, o perché – come diceva – gli era stata tolta la gloria di rifiutare rimproverò aspramente i tribuni e li destituì dalla carica. Da allora non gli riuscì di allontanare da sé l’infamia di avere preteso il titolo di re, benché alla plebe, che lo salutava con tale nome, rispondesse che Cesare egli era, non re; e benché durante i Lupercali (feste in onore di Pane Liceo: si celebravano a Febbraio), davanti ai Rostri, respingesse ripetutamente dal proprio capo il diadema che il console Antonio voleva imporgli e lo facesse portare in Campidoglio a Giove Ottimo Massimo. Si diffuse insistentemente anche la voce che intendesse trasferirsi ad Alessandria o ad Ilio, trasportandovi con sé le ricchezze dell’impero, dopo aver esaurito l’Italia con leve di soldati e affidato ad amici l’amministrazione dell’Urbe; che, poi, nella prima seduta del Senato (da intendere la prima seduta che si sarebbe tenuta se alle idi di Marzo Cesare non fosse stato ucciso), il quindecemviro Lucio Cotta avrebbe proposto che a Cesare si desse il titolo di re, perché nei libri Sibillini stava scritto che i Parti non potevano essere vinti che da un re.” (Traduzione di Italo Lana).

L’avversione degli avversari politici superstiti e di tutti quei senatori o cavalieri che si sentivano colpiti nei loro interessi e privilegi dall’azione politica di Cesare sfociò nell’ampio sdegno per l’eccessiva concentrazione di poteri e onori nella sua persona. La sistematica diffusione di un’accusa di aspirare alla regalità, come sappiamo, fece il resto.
Ancora una volta a contare non è se l’insinuazione può essere vera o falsa, ma l’uso politico che di quest’ultima si fece per eliminare un rivale politico.
La nascita dell’impero romano si fonda su una notizia falsa?
L’uccisione di Cesare lasciò sulla scena politica due figure che ben presto divennero significativi leader politici: Marco Antonio, collega di Cesare nel consolato del 44 a.C., interprete autentico ed erede spirituale della sua linea politica e Caio Ottavio, poi Ottaviano, nipote della sorella minore del dittatore, ma designato nel testamento come l’erede adottivo effettivo.
Malgrado i molti accordi politici, i rapporti fra i due progressivamente si incrinarono e il clima divenne sempre di più teso. La circostanza che fece precipitare gli eventi fu la lettura nel 32 a.C. del presunto testamento di Antonio da parte di Ottaviano in Senato, come raccontano Svetonio (Vita di Augusto, 17.1) e Plutarco, (Vita di Antonio, 58.4-8). Leggiamo le loro testimonianze:
“L’Alleanza con Antonio fu sempre dubbia e malsicura e con varie riappacificazioni male si tentava di tenerla in vita: alla fine egli la infranse e, per provare più convincentemente che il suo avversario era venuto meno ai suoi obblighi di cittadino romano, ne fece aprire e leggere davanti al popolo riunito in assemblea il testamento che Antonio aveva lasciato a Roma, nel quale nominava tra gli eredi anche i figli avuti di Cleopatra”. (Traduzione di Italo Lana).

“Tizio e Planco, consolari amici di Antonio, insultati perché si erano opposti con la massima fermezza alla sua presenza nell’esercito, fuggirono presso Cesare (Ottaviano) e gli rivelarono il testamento di Antonio di cui conoscevano il contenuto. Il testamento era depositato presso le Vestali; Cesare lo chiese, ma esse non lo consegnarono, rispondendogli che andasse egli stesso a prenderlo, se lo voleva. Cesare andò, lo prese e dapprima ne lesse per conto suo il contenuto, segnando alcuni punti che si prestavano bene alle accuse; poi, riunito il Senato, ne diede lettura, tra la disapprovazione della maggior parte dei senatori, poiché pareva assurdo e intollerabile che un uomo dovesse render conto da vivo di quanto aveva voluto che si attuasse dopo la morte. Cesare insistette soprattutto sulla clausola relativa alla sepoltura: Antonio aveva infatti disposto che, anche se fosse morto a Roma, il suo corpo venisse portato in processione attraverso il Foro e poi inviato ad Alessandria da Cleopatra”. (Traduzione di Gabriele Marasco).
Il testo che Ottaviano lesse è da ritenere probabilmente parzialmente falso, visto tutto l’interesse politico che il giovane aveva nel danneggiare la figura di Marco Antonio, dipingendolo come un degenerato, uno zimbello della regina d’Egitto al punto tale che cominciò a far circolare la voce che non era neanche più padrone di sé stesso, perché addirittura drogato da Cleopatra. Continua Plutarco (Vita di Antonio, 60.1):
“Quando i suoi preparativi furono adeguati, Cesare fece decretare con un voto la guerra contro Cleopatra e la deposizione di Antonio, dal potere che aveva ceduto ad una donna. Cesare affermò inoltre che Antonio, sotto l’influsso di filtri, non era più padrone di se stesso […]”. (Traduzione di Gabriele Marasco).
La scientifica operazione di screditamento programmata da Ottaviano ebbe i suoi risultati, visto il noto epilogo della vicenda.

Conclusioni
Il breve excursus nel mondo greco e romano dimostra quanta poca distanza ci sia tra presente e passato. Oggi come ieri esistono le fake news, le bufale e le notizie false che nascono soprattutto per interessi politici e che riescono quasi sempre strumentalmente ad orientare le opinioni delle persone, perché capaci di sfruttare circostanze di malcontento collettivo, in cui trova terreno fertile il sopravvento degli impulsi e delle percezioni immediate che non lasciano spazio alla consapevolezza.