La Siria nella morsa russa

La scorsa settimana si tenuto un summit tra l’Iran, la Russia e il regime turco. Questa notizia sembrerebbe avere le potenzialità di far tacere il cannone (il prezzo è ancora da definire), ma per comprendere al meglio quale sia la strategia di Mosca è doveroso ricostruire in maniera sintetica la maggior parte degli accordi o spartizioni di Stati – Regioni che sono avvenuti negli ultimi duecentocinquanta anni, dove la Russia ha avuto un ruolo da protagonista.

Nella seconda metà del XVIII secolo avvenne la spartizione della Polonia attraverso tre fasi dal 1772 al 1795 che, grazie alla complicità tra il Regno di Prussia, la Russia e l’Impero Asburgico, ha permesso la spartizione di un territorio che godeva di una indipendenza secolare. Pochi anni dopo arrivò Napoleone e, su una zattera edificata in mezzo al fiume Niemen, venne siglato un patto tra Parigi e San Pietroburgo, nel quale, segretamente, vi fu una divisione di aree d’influenza tra i due imperi.

Nel corso dell’ottocento, nel pieno dell’era del “Grande Gioco”, la Russia e l’Impero Britannico avviarono tra di loro quello che nel secolo successivo sarebbe stato definito un “conflitto freddo”. In questo periodo entrambi gli schieramenti gestivano, nell’area centrale dell’Asia, relazioni con entità statali, emirati o città-Stato, questi ultimi oggetto di alleanze annessioni all’Impero Russo o Britannico. Saltando la fase della realpolitik, della belle époque e della Rivoluzione del 1917, ci catapultiamo nella tarda estate del 1939, quando venne siglato il patto Molotov- Ribbentrop, grazie al quale la Germania diede segretamente il via libera a Mosca di occuparsi della Finlandia, dell’agognata Bessarabia, degli Stati baltici e di una metà della Polonia che da lì a poco sarebbe stata invasa dalla Wermacht.

Successivamente vi furono gli anni della cortina di ferro che sono combaciati con l’avvio del processo di decolonizzazione, il quale produsse a livello mondiale la proliferazione di nuovi Stati. Questi, fino al 1991, sono stati al centro di contese (Cuba), di guerre (Vietnam, Afghanistan) e colpi di stato azionati dal blocco occidentale o sovietico. Con la caduta del muro di Berlino viene a terminare un’era, e non la storia, come credette Fukuyama; e l’orso da comunista si muta in federalista semi-democratico, e per qualche anno resta rintanato a leccarsi le ferite pronto per gettarsi nel nuovo millennio con una Presidenza forte, quella di Vladimir Putin. La Russia deve a questa figura il merito di aver smentito ogni malsana teoria geopolitica che la dava per spacciata e pronta a farsi assorbire dal mondo occidentale.

Una vigorosa politica nazionalista basata sul riarmo e un’apertura mirata ai mercati esteri ha permesso in pochi anni alla Russia di ritornare alla ribalta, soprattutto con azioni militari come la guerra in Georgia per l’Ossezia del Sud e l’Abkhazia. Nel 2011 vi è lo scoppio della Primavera Araba, dal Marocco ai paesi del Golfo Persico si sviluppano una serie di proteste che nei paesi più moderati produrranno maggiori aperture verso il modello occidentale ma in Libia e, come nostro caso in Siria, svilupperanno una guerra civile attualmente in corso.

Nell’area siriaca-irachena si è andato a creare uno scenario alquanto interessante dal punto di vista geopolitico: la costituzione di uno Stato Islamico, pronto con le sue bandiere nere a recuperare la lontana (e a volte dimenticata) dottrina mahdista ottocentesca, combattuta e vinta dalle forze curde del YPG sostenute da Francia, Russia e Stati Uniti. Oggi stiamo entrando nell’ottavo anno di guerra in Siria, la quale ha prodotto mezzo milione di morti e milioni di profughi sia nei territori controllati da Damasco che quelli in mano ai ribelli anti-Assad e filo curdi.

Siria
Una combattente curda siriana. Fonte: Rudaw

Il calderone che ci si presenta dinanzi è sicuramente degno di quello balcanico e, grazie all’intervento turco di fine gennaio in funzione anti-curda, si è andato ad aprire un’ulteriore intreccio in questo nodo gordiano. Naturalmente c’era d’aspettarsi che Erdogan sarebbe prima o poi intervenuto con un casus belli giustificato dalle attività terroristiche kurde. Un’azione certamente che allontana l’adesione di Ankara all’Unione Europea e che limita le capacità di azioni di alleati della NATO direttamente coinvolte nello scenario. Si potrebbe spendere andando avanti all’infinito ad elencare le altre motivazioni per cui il Sultano ha deciso di gettare le carte in tavola ed entrare in scena, derogando alla normativa internazionale e umanitaria, ma in queste righe ci si limiterà a comprendere quale sia stata la motivazione ufficiale che ha innescato l’offensiva turca ribattezzata ironicamente “Ramo d’ulivo”.

Ad aggiungere un’altra dose di pepe si è inserito Israele, che pronto a cogliere al balzo l’occasione di un paese da sempre nemico ed ora in crisi, è pronto a rivendicare e continuare la sua occupazione de facto delle alture del Golan. Tel-Aviv attualmente sta bombardando le principali basi militari di Damasco, la quale è sospettata di produrre ed utilizzare le armi chimiche.

Una motivazione simile venne usata anche dagli Stati Uniti. Era il 5 febbraio 2003, quando Colin Powell nel suo discorso al Consiglio di Sicurezza dell’Onu affermò con in mano una confezione tascabile di antracite la presenza di un arsenale chimico in Iraq, affermazioni consolidate da “fonti certe”. La risoluzione non venne votata, ma l’operazione Freedom venne avviata lo stesso il 20 marzo. Ora, per la Siria si sta riproponendo il medesimo scenario, dalla Casa Bianca vengono inviate delle direttive (o Twitter) per supportare la coalizione anti-Assad e giustificarle con i media attraverso un messaggio narrativo strumentalizzato che presenta al largo pubblico fatti non confermati.

In questo scenario la polizza sulla vita del regime è rappresentata dalla base russa di Khmeimim, lo sbocco nel Mediterraneo per Mosca, e quindi strategicamente rilevante per il “Grande Gioco” di Vladimir Putin, il quale è insieme all’Iran, lo sponsor ufficiale di Bashar al-Assad e della sua amministrazione in ambito diplomatico militare.

Come detto in precedenza, Putin ha recentemente incontrato Erdogan e il collega iraniano Rouhani, con gli analisti che già parlano di un nuovo “Sykes-Picot” o della “Yalta meridionale”. I tre leader hanno concordato, oltre che sulla formale e “dovuta” ricostruzione della Siria,  sulla necessità di una maggiore interazione tra i loro paesi. Certamente questo summit apre delle prospettive in termini di affossamento della presenza NATO nel bacino mediorientale, il cui vuoto sarà ricoperto dalla Russia e dai suoi nuovi alleati.

Donald Trump con la sua ricetta politica “America First”, che prevede una exit strategy dall’area si è alienato le simpatie dell’Arabia Saudita, che fino ad oggi ha contribuito a finanziare con i suoi petroldollari lo stanziamento delle truppe americane, ed ora è pronta a trovare nuovi partner che gli garantiscano una leadership nella sua sfera d’influenza.

Dopo otto anni d’indugi e di guerra sotterranea, lo scacchiere si sta definendo in maniera sfavorevole per l’occidente perché se Putin andrà a consolidare l’alleanza con la Turchia, la quale detiene attualmente il secondo esercito in termini di dimensioni e qualità degli armamenti all’interno dell’Alleanza Atlantica, potrebbe creare con l’Iran un nuovo polo di potere che ridisegnerà le mappe geopolitiche del Medio Oriente.

Incontro Assad Putin
Bashar Al-Assad e Vladimir Putin Fonte: t-online.de

Assad rimane alla mercé di questi attori, che imperversano nel suo territorio e da pedina si è tramutato in burattino della Russia, senza nessuna possibilità di appello, a meno che non si accontenti di continuare a governare come satrapo di Ankara o Mosca, confermando la fine del partito Baath e del socialismo arabo. Tra i tre, solamente l’Iran potrebbe avere qualcosa da ridire sul nuovo affiancamento che Putin sicuramente creerà verso l’Arabia Saudita. Fin dall’inizio della guerra allo Stato Islamico, Teheran ha inviato aiuti militari e umanitari sia in Iraq che in Sira, per rafforzare quello che è chiamata la “Mezzaluna sciita” che parte dall’Iran fino a Hezbollah in Libano. Oramai è difficile tirarsi indietro e, sotto pressioni di Mosca, anche Hassan Rouhani e l’Iran dovranno confrontarsi con Riad e i paesi del Golfo, almeno fino alla fine del suo mandato.

Poche ore fa è stata sancita la resa dei ribelli anti governativi di Douma, una cittadina che confina con Damasco. Qui i soldati governativi hanno accettato la bandiera bianca con la garanzia di un salvacondotto al personale militare e delle famiglie al seguito fino in Turchia, che probabilmente li ributterà nella mischia. Sicuramente chi subirà le maggiori conseguenze sarà la popolazione di etnia kurda, la quale si è battuta allo stremo prima contro l’Isis e ora contro Ankara, che con la sua offensiva sta conquistando giorno dopo giorno parti di territorio che l’YPG ha riconquistato contro lo Stato Islamico.

Gli analisti sono concordi nell’affermare che con queste premesse i prossimi dieci anni saranno all’insegna di una lotta senza quartiere tra il principio di autodeterminazione kurdo per un Kurdistan indipendente e sovrano e la Turchia del Sultano Erdogan. Restiamo in attesa della strategia della NATO davanti alla dottrina Trump e di quali linee guida sia capace di redigere per fermare o rallentare la corsa di Vladimir d’Arabia.

 

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