Cosa prevede la flat tax?
Nel contratto firmato da Luigi Di Maio e Matteo Salvini la flat tax è la principale misura che mira a ridurre il peso dell’imposizione fiscale su famiglie e imprese. Prevede infatti due aliquote fisse al 15% (per redditi fino a 80 mila euro), e al 20% (per i redditi superiori agli 80 mila euro) valide per persone fisiche, partite IVA, imprese e famiglie. Per queste ultime sarebbe confermata una deduzione fissa di 3000 euro sulla base del reddito. Per i redditi più bassi vale il principio della “no tax area”.
Oggi esistono cinque scaglioni su cui calcolare l’IRPEF (che, in base al reddito, varia dal 23% al 43%). L’IRES (l’imposta sul reddito delle società) è invece già stata diminuita dal 27,5% al 24% dall’ultimo governo a guida PD.
Con la flat tax si cerca dunque di intervenire su un tema complesso come quello fiscale, cercando di rispettare l’articolo 53 della Costituzione, attraverso un sistema più semplice la cui parziale progressività dovrebbe essere garantita dai due scaglioni e dalla possibilità di deduzioni familiari.

Senza addentrarci in un’analisi economica approfondita, si può pensare che il provvedimento abbia voluto attuare politiche di breve periodo (intervenendo sul reddito) e di medio-lungo periodo (diminuendo le imposte dirette e indirette delle imprese). A tal proposito nel contratto si fa esplicitamente riferimento all’obiettivo di una «maggiore propensione al consumo e agli investimenti». Ma a quale prezzo?
Secondo lo studio di Massimo Baldini e Leonzio Rizzo il nuovo regime fiscale dovrebbe costare all’incirca 50 miliardi di euro (con vantaggi che riguarderebbero soprattutto i redditi medio-alti). Le coperture previste (deficit, pace fiscale, spending review, recupero dell’evasione fiscale) non sarebbero sufficienti e, unite ai costi delle altre misure previste nel contratto (superamento “legge Fornero” e reddito di cittadinanza su tutte), potrebbero produrre un buco considerevole nelle casse dello Stato.
Una diversa visione dello Stato?
Andando oltre gli aspetti contabili e di bilancio si può affermare che la flat tax fa parte di un complesso di misure che mirano a cambiare la concezione dello Stato da parte del cittadino: da soggetto indispensabile per l’erogazione dei servizi pubblici, a figura sì necessaria ma in funzione degli interessi e del vantaggio del singolo individuo, e non sempre ad esclusivo vantaggio della collettività tutta. In questo senso lo Stato deve mettersi a disposizione del cittadino, anche rispetto ad eventuali irregolarità.
Su questa lunghezza d’onda possono essere valutati alcuni interventi previsti dal contratto:
– L’inversione dell’onere della prova (da attribuire sempre allo Stato) nei casi di contraddittorio fiscale tra amministrazione finanziaria e contribuente.
– La “pace fiscale” pensata per favorire l’estinzione del debito del contribuente verso la PA tramite un «saldo e stralcio dell’importo dovuto» in caso di situazioni di difficoltà economica.
– La cartolarizzazione dei crediti fiscali (cioè la cessione in blocco a titolo oneroso di una pluralità di crediti), attraverso i cosiddetti “minibot”. I debiti della PA verso fornitori, cittadini e imprese verrebbero dunque trasformati in titoli di stato di piccola taglia con cui gli stessi soggetti potrebbero pagare le spese future nei confronti dello Stato (tasse, contravvenzioni ecc.). A tal proposito un’adeguata analisi è fornita da Federico Fubini sul Corriere della Sera.

L’insieme di queste misure può dunque essere letto come parte di un progetto più ampio in cui l’autorità pubblica non ha più il compito costruttivo di considerare l’interesse generale della collettività, ma diventa spesso il soggetto colpevole che deve riscattarsi per le gravi ingiustizie che ha compiuto nei confronti della popolazione comune. Da un originario ruolo di costruzione e di mediazione tra le diverse necessità, si passa ad uno status di automatica responsabilità dello Stato rispetto alle difficoltà economiche dei singoli individui che non si sentono più parte di una comunità.
A giustificare parzialmente questa visione, lo “European Payment Report 2017” (p.14), a cura di Intrum Iustitia (società leader mondiale nel recupero crediti), riporta come in Italia la Pubblica Amministrazione impieghi in media 95 giorni per ripagare i propri fornitori. Un dato tra i più alti in Europa se si escludono i casi di Grecia e Portogallo. Nonostante i numeri indichino un miglioramento rispetto al passato, la cifra è ancora tropo alta per poter parlare di cambiamento radicale.
Un discorso simile riguarda i debiti complessivi della PA verso le aziende. La Relazione annuale della Banca d’Italia del 2017 (p. 136), indica come: «Nel 2016 i debiti commerciali delle Amministrazioni pubbliche avrebbero continuato a ridursi, dal 4,2 per cento del PIL stimato per il 2015 al 3,8 (all’incirca da 68 a 64 miliardi)».

Infine la “Note on stock of liabilities of trade credits and advances (April 2018)” elaborata da Eurostat, conferma come nel 2017 l’Italia sia stata il secondo paese in Europa, dopo la Croazia, con la più alta percentuale di debiti commerciali rispetto al PIL (2,8%). Dati in miglioramento, ma che relegano il nostro paese ancora agli ultimi posti di questa speciale classifica.
Insomma se le statistiche confermano alcune inefficienze della PA verso imprese e cittadini (come dimostra anche il recente caso dell’imprenditore Sergio Bramini), il nuovo governo sembra voler assecondare e rafforzare questa visione con interventi di forte impatto.
Al di là delle valutazioni economiche, la direzione intrapresa sembra essere chiara. Se il governo diventerà operativo il percorso sarà dunque irto di ostacoli e difficoltà, sia nelle contrattazioni in sede europea, che pur si dovranno affrontare, sia per quanto riguarda l’andamento delle fragili finanze statali italiane.
Comunque vada i tempi sono stretti, e il D Day per la nascita delle riforme si avvicina. I termini per la presentazione della Nota di aggiornamento al DEF (fine settembre), e del Disegno di legge di bilancio (metà ottobre), non sono così lontani e se si vuole evitare il ricorso all’esercizio provvisorio bisognerà lavorare alacremente per trovare coperture certe, e non “una tantum”, alle numerose proposte del contratto.
Le prossime ore ci diranno se l’Italia è veramente entrata nella “Terza repubblica”, o se la legge elettorale proporzionale e le alleanze post-voto non l’abbiano ricondotta ai tempi della “Prima repubblica“.
Copertina: Il Post
Founder e Creator di Polinside. Appassionato, affamato di politica e di tutto ciò che ricorda la Prima Repubblica.
Master in “Relazioni istituzionali, Lobby e Corporate Communication” alla Luiss Business School, mi occupo di corporate communication in Community.
Nel tempo libero pratico Crossfit, cucino l’Amatriciana e sogno il compromesso storico.