Una Nazione senza Stato
Lo scorso 25 settembre si è tenuto il referendum per l’indipendenza del già autonomo Kurdistan iracheno. Come noto (e prevedibile) circa il 93% della popolazione si è dichiarata a favore; una vittoria per il KRG che però dovrebbe prestare molta attenzione perché, avvertiva Oscar Wilde, ci sono due grandi tragedie nella vita: una, non ottenere quello che si vuole. L’altra, ottenerlo.
Quando parliamo di Kurdistan intendiamo le zone abitate prevalentemente dalla popolazione curda: trentacinque milioni di persone distribuite nel fertilissimo altopiano mesopotamico, tra i Monti Zagros, i Monti del Tauro e il deserto arabo-siriano includendo i bacini del Tigri e dell’Eufrate, il lago di Van, lambendo il lago di Urmia. Territori che attualmente appartengono -più o meno- legittimamente a Siria, Turchia, Iran e Iraq.
Soffermarsi sulla dimensione geografica risulta di particolare rilevanza almeno per una triplice ragione. Da un lato è evidente che, guardando la carta, il Kurdistan sebbene si ritrovi ad essere una nazione senza Stato, è dotato di un territorio con confini marcati, delimitati;
Dall’altro lato la presenza di quei bacini idrici la rende una zona ricchissima in un’area che notoriamente risente di scarsità idrica e che molto spesso concentra le dispute proprio sulla risorsa acqua. La grande concentrazione di petrolio poi rende la questione curda ancor più complessa, la zona infatti è tornata alla ribalta del grande gioco centro asiatico dopo l’implosione dell’ex Unione sovietica non solo e non tanto per la risorsa petrolifera e per i giacimenti di gas di cui è dotato il mar Caspio. Il vantaggio infatti, deriverebbe piuttosto dallo sfruttamento dei diritti di passaggio degli oliodotti e gasdotti.
Vale la pena ricordare infine il progetto cinese della ricostruzione della via della seta che dovrebbe avere il suo fulcro nel Kurdistan siriano.
In una battuta: se il Kurdistan diventasse uno Stato indipendente, sarebbe senza dubbio una realtà dalla valenza geopolitica straordinaria; da qui la riottosità sia internazionale sia di Siria, Iran, Iraq e Turchia (che si ritroverebbero ad avere il Kurdistan come punto di raccordo strategico) a pensarlo come una realtà politica indipendente.
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Map of the Autonomous Region Kurdistan by Maximilian Dörrbecker (Chumwa), derviative work by ilyacadiz
La questione curda e la divisione interna
Con buona probabilità il 25 settembre resterà una di quelle date che magari in futuro verranno celebrate nei libri di storia di un’ipotetica scuola curda, al fine di creare una consapevolezza, un’unità nazionale che di fatto, ad oggi, non esiste. E qui, veniamo ai nodi, alle contraddizioni di cui la questione curda è ricchissima, non solo da punto di vista “interno”, ma pure internazionale.
I curdi infatti devono dimostrare anzitutto a loro stessi la maturità politica necessaria ad affrontare un ipotetico percorso indipendentista che già si preannuncia difficilissimo. Innanzitutto si dovrebbe chiarire chi sono i curdi, capirne la loro identità. Infatti, la popolazione curda sebbene possa contare su una certa omogeneità religiosa, è piuttosto frastagliata dal punto di vista linguistico: ai due ceppi principali, il Kumarngi e Sorani, si aggiungono una serie di dialetti molto spesso non intelleggibili tra loro.
All’eterogenità sociale poi si aggiunge una diversità di priorità, di conflitti- spesso anche interni- alle diverse comunità curde. Si prenda ad esempio proprio il Kuristan Iraqeno; politicamente il KRG vede la predominanza dei due partiti maggiori KDP (partito democratico del Kurdistan, con sede ad Erbil) e PUK (Unione Patriottica del Kurdistan, con sede a Sulaymaniyah), espressione delle due famiglie più influenti, Barzani e Talabani. I due gruppi nel ’94 iniziarono una guerra civile che finì solo nel 1997.
In ogni caso è importante segnalare anche collaborazioni proficue. Ci si riferisce naturalmente al PKK, la cui presenza è stata fondamentale nella preparazione militare della resistenza curdo-siriana contro IS, ma anche nell’amministrazione della Rojava, l’entità statale (semiautonoma) a guida curda che controlla la maggior parte dei territori riconquistati nella guerra siriana. Il punto è che il PKK si trova ad un bivio; Ankara, preoccupata dello spazio politico che il PKK va via via ritagliandosi, ha riacceso le lotte interne e il partito deve decidere se continuare nella direzione della resistenza oppure rinunciare e trattare con il governo centrale turco al fine di evitare situazioni di guerriglia civile.
La questione curda è una bomba ad orologeria e se ne dovrebbe prendere atto evitando situazioni come quella Siriana in cui l’occidente libero cadde ancora una volta nel vizietto tutto nostro di girare lo sguardo altrove per non rischiare di impelagarsi in situazioni scomode dichiarando, per bocca della Croce Rossa Internazionale, che ci si trovava in una vera e propria guerra civile solo nel luglio del 2012, più di un anno dopo dall’inizio del conflitto. Quello che è successo più tardi è la drammaticità che la Siria, dal 2011, vive quotidianamente.
Il ruolo del Kurdistan nella Storia
Ma facciamo un passo indietro e chiariamo come secondo una possibile interpretazione l’occidente sia dentro la questione curda ed abbia contribuito a costruirla ad artificio per il proprio tornaconto geopolitico.
I curdi hanno sempre rivestito un ruolo più o meno rilevante nell’impero ottomano: una popolazione di frontiera che godeva ampi spazi di manovra in cambio della fedeltà al sultano. È a fine ottocento che cominciano a diventare questione di rilevanza internazionale, da quando diventa chiaro a tutti che la Sublime Porta andava trasformandosi nel malato d’Europa; la questione curda veniva rimessa in gioco in concomitanza con la ridefinizione dei confini dell’impero ottomano. È in questo momento infatti che i curdi cominciano a prendere coscienza della loro rilevanza internazionale anche grazie alla politica inglese della destabilizzazione interna al fine di agevolare e velocizzare la caduta definitiva dell’impero ottomano.
A dire il vero già da durante l’impero di Abdulhamid II (1876-1909) la politica di centralizzazione aveva causato risentimenti nelle popolazioni periferiche che, come detto, avevano sempre mediato con il governo centrale una certa autonomia. Alla fine della prima guerra mondiale i nodi venivano finalmente al pettine: il Trattato di Sevrès (1920) fece concretamente sperare nella costruzione di uno Stato curdo.
L’articolo 62 prevedevainfatti che in un primo momento una commissione formata da Inghilterra, Francia e Italia avrebbe costituito un nuovo governo locale, nella zona est dell’Eufrate, il quale dopo un anno sarebbe passato in mano curda, chiedendo ufficialmente l’indipendenza (art. 64). Ca va sans dire, l’accordo venne ampiamente disatteso e la zona venne divisa nel modo in cui è giunta a noi. Da allora sono stati compiuti molti progressi e si sono sperimentate soluzioni che hanno lasciato ben sperare. Ci si riferisce al Kurdistan Iracheno (o Kurdistan Meridionale) nel primo caso, e alla Repubblica di Mahabad nel secondo, ma come detto molti sono gli ostacoli di cui si deve tener conto.
Innanzitutto la contrarietà internazionale; ammesso e non concesso che si riesca ad arrivare all’indipendenza, in quanti sarebbero pronti a riconoscere il nuovo Stato? È pur vero che il Kurdistan sembra poter contare su un insospettabile alleato, Israele.
In secondo luogo le trazioni interne; la frammentazione del panorama curdo (la divisione in clan, tribù), la mancanza di un leader e di un progetto condiviso infatti rischia di diventare un autogol clamoroso, fonte di permanente instabilità;
Se da una parte sono una potenziale bomba per il già disordinato Medioriente, dall’altra i curdi rischiano di impelagarsi in una palude in cui nessuno vince e nessuno perde, si consideri l’esempio del conflitto arabo palestinese. Ammesso che la Storia insegni.