Non vi è pace a Mogadiscio, dove il 14 ottobre si è consumato il più grande attentato della storia somala. Un’autobomba è stata fatta esplodere davanti l’hotel Safari, in una zona frequentata dall’alta borghesia della capitale. L’attentato ha provocato la morte di oltre trecento persone e il ferimento di quattrocento. Attualmente non vi è stata nessuna rivendicazione ma il ministro dell’informazione Abdirahman Omar Osman ha accusato il gruppo jihadista al-Shabaab, dichiaratamente legato ad al Quaeda dal 2012.
Non è una novità che le forze somale non riescano a contenere i terroristi, basti pensare che all’inizio dell’anno le votazioni che hanno eletto l’attuale Presidente, il somalo-statunitense Mohamed Abdullahi Farmaj, non si sono tenute nei seggi e neanche nel Parlamento, bensì all’interno di un hangar blindato a pochi metri dal quartier generale dell’Unione Africana, organizzazione che opera in prima linea nella guerra al terrorismo di matrice somala. Vani sembrano i tentativi che negli ultimi anni sono stati fatti per stabilizzare l’area.
Fin da quando l’ex Presidente Siad Barre lasciò Mogadiscio su un carro armato nel gennaio del 1991, la Somalia non ha conosciuto pace. Anzi, sarebbe più corretto dire che il paese fin dalla metà degli anni ottanta è scosso dalla guerra a causa della politica autoritaria di Barre, che negli ultimi anni della sua presidenza ha legittimato il suo potere ricorrendo alla forza e ad elezioni plebiscitarie.
Come è anche stato per la Libia del dopo Gheddafi, la Somalia, in anticipo di una ventina di anni, ha dimostrato che la fine di un capo, di un dittatore-presidente porta effettivamente alla ribalta guerre fratricide tra clan che sembrano essere immuni ai tentativi di riconciliazione e ricostruzione più o meno pacifici da parte della comunità internazionale. Il corno d’Africa dal 1995 è stato lasciato in mano ai signori della guerra che – tramite la pirateria, i rapimenti e le guerre intestine – hanno manifestato al mondo intero la precaria situazione di abbandono del paese, il quale è entrato a far parte della categoria dei failed states. Con questo termine si fa riferimento a quegli Stati nazionali riconosciuti formalmente, dotati di un territorio e di una popolazione ben definita, ma privi di un governo centrale che effettivamente eserciti la sovranità sul suolo e sulla popolazione nazionale.

Un altro fattore che ha consolidato l’anarchia politica in Somalia fu l’avvento della Jihad terroristica, la quale influenzò notevolmente i clan somali musulmani che, abbracciando la guerra all’Occidente, accolsero l’ideologia al-quaediana aprendo così la seconda fase della guerra civile sotto il segno del conflitto armato all’Occidente ed ai suoi alleati. Spesso la debolezza di un paese rafforza la posizione dei vicini. Così è stato per l’Etiopia, da sempre in contrasto con la Somalia per la questione relativa alla regione dell’Ogaden, che nel 2007 ha dato avvio ad una massiccia operazione militare volta a contrastare le corti islamiche che da qualche anno avevano preso il controllo della Somalia meridionale, inclusa Mogadiscio.
Ma il tentativo etiope ebbe due effetti principali: il primo dimostrò un ulteriore fallimento di domare le bande somale, mentre il secondo, rafforzò la posizione di leadership regionale dell’Etiopia, la quale si erse de facto a primo baluardo contro il fondamentalismo islamico nel corno d’Africa e oggi è uno dei paesi più impegnati nell’attuale missione di peace-keeping dell’Unione africana in Somalia, AMISOM (African Union Mission in Somalia).
Sono due decenni che l’Etiopia si manifesta come l’attore garante dello sviluppo d’iniziative multilaterali, il che l’ha portata ad acquisire una forte leadership nella regione anche all’interno dell’IGAD (Intergovernamental Authority on Development) e nell’Unione Africana, che per l’appunto ha sede nella capitale etiope. Viene logico pensare che oggi, a dieci anni dall’inizio dell’intervento etiopico e a quasi sette dall’avvio della missione di peace–keeping, è più che mai ambiguo il ruolo giocato da Addis Abeba la quale, pur partecipando ad AMISOM, continua a mantenere una parte delle proprie truppe in Somalia che non rientrano nella missione di pace, ma che di fatto amministrano e controllano ampi territori.
L’obiettivo di questa manovra appare chiaro secondo gli analisti: ovvero l’Etiopia attraverso la sua fitta rete diplomatica, edificata nel corso dell’ultimo decennio tende a creare in Somalia un apparato fondato sul federalismo etnico, una forma di Stato decentrata che darebbe la gestione delle regioni e dello Stato centrale ad esponenti di una determinata etnia (vicina ad Addis Abeba), come è accaduto in Etiopia (gruppo etnico del Tigrai) dalla caduta del regime di Menghistu. Nonostante il forte interesse dei paesi limitrofi, la Somalia non riesce a risollevarsi, a dimostrazione di ciò vi è il risultato fallimentare sul piano militare che AMISOM sta ottenendo.

Negli ultimi anni le incursioni di al-Shabaab si sono fatte più audaci e violente: il primo settembre 2015 sono caduti in un’imboscata cinquanta caschi verdi ugandesi mentre è clamorosa l’aggressione del 15 gennaio 2016 contro una base dell’Unione nella città di El-Ade che ha causato la morte di almeno cento militari kenioti. Non bastano le attività di supporto che l’Occidente e in particolare modo gli Stati Uniti effettuano sul territorio attraverso il rifornimento di armi, di personale specializzato per l’addestramento e logistica, di limitate azioni militari che hanno l’obiettivo di abbattere personale di spicco dell’entourage terroristica di Al Queda nell’ex colonia italiana
La ricostruzione resta ancora un miraggio, di concerto all’Unione Africana solamente l’Etiopia e il Kenya e si sono dimostrati essere in grado di rattoppare la grave situazione inviando sul territorio delle truppe poco professionali e male addestrate per affrontare un nemico che di giorno in giorno si fa sempre più temerario e sicuro di sé.
La mancanza di una exit strategy provoca certamente delle perplessità in ambito onusiano, ma proprio per questo con una manovra degna di Ponzio Pilato le Nazioni Unite prolungheranno il mandato di AMISOM e molto probabilmente contribuiranno a lasciare nell’oblio la Somalia.
Parlando in termini spaziali, la politica africana è molto distante dalla nostra realtà, e, come è sempre stato, non vi è una trasparenza delle informazioni, non vi è una solidarietà sentita come quando gli attentati vengono attuati sul territorio europeo o americano. Quello che noi facciamo è indignarci davanti a delle immagini che vengono trasmesse dai telegiornali o su qualche pagina dove viene ritagliato un articolo apposito perché si pensi che sia doveroso dargli uno spazio visivo a ciò che accade lontano da noi. Resta comunque il fatto che la Somalia è e sarà una ferita aperta, non solo per l’intera comunità internazionale, ma anche per l’Italia, la quale durante gli anni ottanta ha intessuto numerosi traffici illeciti con l’amministrazione Barre. Ma questa è un’altra storia, dolorosa ma reale, come in fondo lo è la guerra di Somalia.
Credits copertina:
“Dayniile IDP Camp in Somalia” by United Nations Photo