Pochi mesi ormai ci separano dalle prossime elezioni politiche che probabilmente si terranno all’inizio di marzo 2018. Un periodo cruciale poiché precede immediatamente la campagna elettorale ed è dunque il momento in cui le forze politiche delineano la loro strategia e le alleanze per il futuro.
La situazione di tripolarismo esistente oggi in Italia, unita ai meccanismi proporzionali della nuova legge elettorale (per un approfondimento degli aspetti più tecnici clicca qui), spingono i partiti a formare alleanze per conquistare, o almeno aspirare alla maggioranza assoluta dei seggi. Per questo motivo l’attenzione è ora posta sulle trattative attualmente in corso che, come spesso accade, sono determinate solo parzialmente da questioni ideologiche e molto più da tattiche relative alla conquista dei seggi.
Da questo punto di vista se sembra ormai questione di tempo l’annuncio dell’asse a destra tra Berlusconi, Salvini e Meloni, diversa è la situazione che si vive a sinistra, con il perenne conflitto tra renziani e anti-renziani. Checché se ne dica è proprio intorno all’ex Presidente del Consiglio, e alle politiche da lui patrocinate in questi anni, che si basa il consenso o il dissenso su una possibile coalizione che comprenda tutte le forze di centro-sinistra.
Come si evince dall’immagine in evidenza, l’universo dei partiti candidati a far parte della futura coalizione a guida Pd è molto ampio e comprende liste di diverse estrazioni ideologiche: dalle forze di centro, centro-destra agli europeisti fino ad arrivare a Rifondazione Comunista. Sembra difficile trovare dei punti di congiunzione ma la nuova legge elettorale – stabilendo una soglia del 3% per l’assegnazione dei seggi e dell’1% per determinare la cifra elettorale – rende necessaria, soprattutto a sinistra, la più larga alleanza possibile tra le varie forze in gioco.
Partendo da queste premesse l’accordo più importante, ma anche più difficile da realizzare, è quello tra il Partito Democratico e le forze più spostate a sinistra, tra cui si trovano i fuoriusciti dello stesso Pd (Mdp e Possibile), e la sinistra radicale (Sinistra Italiana e Rifondazione Comunista). Numerosi esponenti di spicco (tra gli altri la minoranza dem che fa capo a Emiliano e a Orlando, e Campo Progressista di Pisapia), sponsorizzano una tregua tra le due anime per arginare il successo della destra, il vero nemico. Le ultime tiepide aperture di Speranza e di Renzi hanno però dimostrato la scarsa convinzione a raggiungere un simile traguardo.
D’altra parte il ritiro di Mdp dalla maggioranza, a seguito dell’approvazione della legge elettorale e del mancato avallo sulla legge di Bilancio, è avvenuta solo qualche settimana fa e lo strappo non sembra ricucibile in tempi brevi. L’uscita del Presidente del Senato Grasso dal Pd, e la sua nota simpatia per il movimento di Bersani e Speranza, hanno posto un ulteriore tassello su un rapporto già complesso.
Le ragioni della divisione a sinistra
Al di là degli ultimi eventi, il percorso sembra ormai ben delineato e potrebbe portare alla formazione di due diversi cartelli elettorali, senza però escludere una futura collaborazione post-voto. La propensione verso una soluzione di tal genere sembra essere suggerita da diversi fattori di natura ideologica ed elettorale.
In primo luogo è in atto ormai da tempo uno scontro aperto sulle politiche attuate dall’esecutivo di centro-sinistra nell’attuale legislatura. Jobs Act, Buona scuola, bonus da 80 euro, abolizione dell’Imu sulla prima casa hanno creato non pochi malumori in una frangia consistente del Pd fino al punto di rottura di inizio 2017, a seguito della sconfitta al referendum costituzionale. Un dissenso percepito fin dalle prime riforme del governo Renzi e dovuto allo spostamento del partito verso gli interessi di quei ceti liberal borghesi che un tempo votavano Dc.

Un punto cruciale di questo processo è rappresentato dal modello portato avanti con il Jobs Act. In particolare dalla misura che non prevede l’obbligo di reintegro per il lavoratore che sia stato vittima di licenziamento per motivi economici, e dal contratto a tutele crescenti.
Non a caso un’aspra battaglia è stata portata avanti dai sindacati e da quella che oggi è un’ex componente del Pd contraria alla modifica dell’articolo 18. A tal proposito un progetto di legge volto alla reintroduzione delle precedenti garanzie è stato depositato proprio in questi giorni da Mdp, Possibile e Sinistra Italiana.
Insomma, sulla tutela dei lavoratori sembra essersi consumato una frattura storica tra due anime della sinistra riformista che da sempre convivevano nel Pd e che con Renzi sembrano essersi allontanate. Questa situazione porta ad analizzare un ulteriore elemento relativo al consenso elettorale che verrebbe a concretizzarsi nell’ipotesi di liste separate.
Il “complesso renziano” ha infatti condotto anche una parte dell’opinione pubblica a discostarsi da quel modello personalistico di politica di cui il segretario del Pd è il maggior rappresentante. Già al referendum del 4 dicembre una parte consistente, seppur minoritaria, dell’elettorato democratico e di sinistra si era schierata contro la riforma. Al Comitato del No avevano aderito figure del calibro di Stefano Rodotà, Moni Ovadia e Gustavo Zagrebelsky, da sempre attenti all’equilibrio costituzionale del paese.
Ed è proprio a partire da questo movimento che Tomaso Montanari e Anna Falcone hanno posto le basi di consenso per il cosiddetto “Quarto polo a sinistra” che, secondo la loro prospettiva, dovrebbe concentrarsi sui temi cruciali delle disuguaglianze e della giustizia sociale, senza preoccuparsi dei rapporti tra le leadership di partito. Un progetto partecipato dal basso che per ora ha poco a che vedere con le trattative ad ora in corso tra Mdp, Pd e Campo Progressista, in cui l’attenzione è posta principalmente sui contrasti tra i vari esponenti.

Ciò che è interessante sottolineare è che ad oggi una coalizione a sinistra del Pd, in base ai vari sondaggi, potrebbe ottenere tra il 6 e il 7% nei collegi plurinominali, mentre avrebbe difficoltà a competere nell’uninominale. L’aspetto da sottolineare è che una percentuale del genere sarebbe spendibile più facilmente a seguito delle elezioni che in un’alleanza pre-voto. Quest’ultima infatti, pur garantendo qualche collegio in più nel maggioritario, potrebbe però inficiare il consenso di quell’elettorato di sinistra deluso dal Pd, che non sarebbe più orientato a scegliere la compagine di Speranza se questa si alleasse proprio con gli ex colleghi democratici alle politiche.
È anche vero che una sinistra divisa è condannata non solo a perdere, ma anche a ricevere un consenso probabilmente inferiore rispetto a M5S e Centrodestra, in un Parlamento in cui, per forza di cose, si ritroverebbe all’opposizione. Ma le dinamiche del proporzionale conducono a questo genere di situazioni in cui l’aspetto più importante è garantirsi una cospicua rappresentanza parlamentare e dunque un maggiore potere contrattuale.
Se questa strategia porterà a risultati concreti lo vedremo a breve nelle elezioni regionali in Sicilia e alle municipali di Ostia, dove Pd e sinistra si presentano divisi.
Founder e Creator di Polinside. Appassionato, affamato di politica e di tutto ciò che ricorda la Prima Repubblica.
Master in “Relazioni istituzionali, Lobby e Corporate Communication” alla Luiss Business School, mi occupo di corporate communication in Community.
Nel tempo libero pratico Crossfit, cucino l’Amatriciana e sogno il compromesso storico.