Il relativismo storico del populismo albanese: in nome del popolo sovrano

Un viaggio alla scoperta del populismo albanese di ieri e di oggi. Dalla repressione di Hoxha alla “nuova democrazia” di Rama.

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Il populismo albanese  contemporaneo affonda le radici nel culto della personalità del dittatore Enver Hoxha. La sua ferrea ideologia comunista – protrattasi per quasi mezzo secolo dalla fine del 1945 fino ai moti insurrezionali del 1992 – ha modellato l’uomo socialista, indotto ad anteporre le aspirazioni materialiste al comune senso di appartenenza ad un’utopistica e icastica società comunista.

Un populismo arginato da tonnellate di cemento, manifestato sia dagli innumerevoli bunker, uno per famiglia, sia dalla disciplina socialista. Una Nomenclatura irreprensibile, guardiana, estranea al sentimento di pietas cristiana, messa al rogo dal “religioso rosso”. Un regime intollerante ed insofferente verso un’altra voce, impronunciabile, di un populismo oscuro, considerato tradimento nei confronti della patria, scovato attraverso la temibile efficienza della polizia segreta Sigurimi.

Un sentimento debellato nei campi di prigionia con torture, condanne a morte e persecuzioni nei confronti di intere famiglie accusate di propaganda di idee sovversive contro il regime. Per anni quello cattolico è stato un populismo represso ed occultato in nome di un ideologia intrisa dell’oppio dell’uguaglianza, concetto tipico del comunismo marxista-leninista e monopolio del potere dello “zio Enver”.

Il Washington Times, in un articolo del 15 Febbraio 1994, ipotizzava che durante il regime ci fossero state tra le 5 mila e le  25 mila esecuzioni politiche. Più verosimilmente il dato ipotizzato dal New York Times nell’agosto 1997 si fermava a circa 5 mila. Una dittatura parricida di un populismo di cadaveri (figli illegittimi), destinata a sgretolarsi, riscattando in parte le suppliche di giustizia di intere generazioni di altri albanesi, sotto lo sferzante susseguirsi degli eventi storici, indipendenti dagli strumenti oppressivi del partito del lavoro.

La morte di Hoxha l’11 aprile 1985, la politica della Glasnost posta in atto da Gorbacev e, infine, la caduta del muro di Berlino nel novembre del 1989, decretarono una maggiore distensione interna culminata con l’introduzione del multipartitismo nel 1991 e la vittoria del Partito democratico d’Albania di Sali Berisha. L’Albania e gli albanesi cessavano di essere una mera macchia di colore sulla carta geografica, attuando una transizione a cui hanno fatto da contrappunto sporadici disordini che avevano provocato già la destrutturazione della tragica epoca comunista (emblematico l’assalto alla statua di Hoxha al centro di Tirana). Tutto ciò senza dissanguanti lotte intestine riscontrabili, al contrario, nella praghese rivoluzione di velluto.

In preda ad una frenetica corsa all’oro, identificata nel consumismo di massa e nella spasmodica ricerca del benessere e del pluralismo, il popolo della neonata e fragile democrazia andava esponendosi all’avida consolidazione del potere di demagoghi, promotori di un fallace e ammaliante riforma economica d’impronta capitalista.

Effettivamente dal 1993 al 1996 l’economia albanese riscontrava un incremento del PIL tra il 7% e 13%, con un’inflazione che scendeva vertiginosamente dal 400% al 29%. Questi dati non derivavano da un’economia realmente produttiva ma dal commercio con l’estero, basato sulle rimesse dei primi emigrati in Grecia ed Italia. Il miracolo economico albanese, aveva ingannato sia l’opinione pubblica estera – tanto da parlare di “piccola Svizzera dei Balcani”- sia la società civile albanese, che non osava smuovere gli animi del popolo volenterosi di arricchimento e timorosi di essere etichettati come nostalgici dell’anciem regime di Hoxha.

L’inarrestabile corsa dello Stato “più stabile tra i paesi”,così definito dal leader del Partito democratico d’Albania (in seguito PD), procedeva sotto l’egida delle direttive del FMI di cui l’Albania sembrava essere l’allievo più morigerato. Immerso in una placenta di progresso, il popolo albanese era atteso alla prova delle elezioni del 1996, spartiacque dell’indole europeista e democratica del popolo più antico del vecchio continente, e discendente dei fieri illiri.

Intuendo glii spasmodici desideri dell’elettorato, il nuovo profeta portatore della libertà, Sali Berisha, leader del PD, arringava in piazza un populismo infervorato da anni di privazioni della “dolce vita”, sognata tramite la trasposizione dei rari programmi televisivi italiani.
La porta per l’Eden dei privilegi passava dagli investimenti nelle società finanziarie, sponsorizzati dal governo del PD, vincitore delle elezioni e garante della solidità e della trasparenza, nonostante (irrealistici) tassi d’interesse sino al 30% sui risparmi investiti.

Gran parte della stessa campagna elettorale del partito democratico venne sostenuta economicamente dalle società finanziare, e gli stessi leader e funzionari di partito furono i primi ad adoperarsi per recuperare i capitali individuali. A pagarne caro prezzo furono più del 70% delle famiglie albanesi, costrette a vendere case e terre, mentre i più anziani – colonne portanti nelle famiglie patriarcali – furono costretti al suicidio.

Il crollo delle piramidi finanziarie, che aveva rastrellato circa 2 miliardi di dollari (cioè più del PIL dell’intero paese), gettava sul lastrico le famiglie attratte dalla globalizzazione del capitalismo e dalle trame machiavelliche del casino-capitalism, basato sulla speculazione della moneta senza curarsi della realtà economica disastrata. I vagiti della democrazia rischiavano di essere soffocati dallo spettro di un populismo peggiore persino di quello intransigente di Hoxha, rorido di violente recrudescenze anarchiche e tramutatosi in una lotta armata tra il Sud ed il Nord. Continui assalti ad arsenali militari, scuole, banche, presidi sanitari ed istituzioni pubbliche e governative, quest’ultime ritenute, assieme al presidente Berisha, artefici della grave crisi socio-economica.

Nella caotica ridda di proposte politiche emerse il rinnovato partito socialista che, coadiuvato dalla mediazioni della comunità di Sant’Egidio e dall’intervento armato dell’operazione Alba, si pose alla guida di un governo che diede vita alla nuova Costituzione della Repubblica di Albania nel 1998. Nella successiva traiettoria politica, lunga più di un decennio, si è osservata l’alternanza temporanea e precaria tra i due partiti maggiori. In questi anni i vari direttori dell’orchestra politica hanno rispolverato lo spartito del populismo di matrice europeista e l’intramontabile mito nazionalista dell’Albania Etnica. Secondo questo immaginario rientrano sotto la bandiera con le aquile gli albanesi del Montenegro, del Kosovo, della Macedonia e della Grecia. Per raccogliere effimeri consensi i protagonisti della scena politica hanno portato avanti l’idea della Nazione sovrana, nonostante gli albanesi si dichiarino orgogliosamente autoctoni nei confronti delle tradizioni delle frammentarie regioni.

Пакко, CC BY-SA 3.0 https://creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0, via Wikimedia Commons

Lo slogan europeista è stato il programma centrale del partito socialista e del suo fervente leader europeista Edi Rama, che ha vinto le elezioni nel giugno del 2013 ottenendo la maggioranza assoluta nel nuovo Parlamento, 84 seggi su 140, con il 58% dei voti. Lo svolgimento delle elezioni nel rispetto degli standard di sicurezza ha rappresentato una traguardo importante, a cui è seguito il conferimento di status di candidato ufficiale dell’UE, ottenuto il 27 giugno 2014.

A distanza di quattro anni, il Partito socialista d’Albania è riuscito nelle elezioni del 25 giugno 2017 a riconfermarsi alla guida del governo raccogliendo la maggioranza delle preferenze in 10 dei 12 collegi elettorali. Il trionfale successo di Rama è stato accompagnato da un nuovo miracolo economico: il prodotto interno lordo albanese è passato dal 2,8 per cento del 2015 al 3,2 del 2016 e si stimano per il biennio 2017-2018 valori sino al 3,6. In base ai dati di Doing Business (vedi p.7 del report), l’Albania ha raggiunto la 58esima posizione nel 2017, a scapito della 90esima del 2016, nella classifica dei paesi ideali per offshoring di imprese italiane e straniere.

Nel suo programma politico il primo ministro ha lanciato quel progetto della “nuova democrazia” fondato sul “co-governo con i cittadini”, per denunciare i dipendenti pubblici colpevoli di comportamenti contro la comunità. Il suo atteggiamento intransigente ha portato in molti ad accusarlo di una nuova forma di populismo, alla stregua dell’innominabile dittatore, in particolare a seguito della prima pubblicazione di una lista nera di funzionari pubblici rei di aver attuato forme di abuso nei confronti di cittadini onesti.

Nonostante l’adozione a livello legislativo della legge per la prevenzione dei whistleblower, la nuova legislatura dovrà attuare ulteriori sforzi verso la de-politicizzazione della pubblica amministrazione, per la lotta alla criminalità organizzata e verso una profonda riforma del sistema giudiziario, senza fomentare nuovi populismi e facilitando il percorso d’inserimento nell’Unione Europea.

Il “populismo albanese” socialista di Rama sembra figlio tanto di un’ideologia (o struttura culturale), quanto di dati pragmatici che si ritrovano nei numerosi cantieri per la costruzione di grattacieli che sommergono Tirana. È la materializzazione di un economia galoppante, che porta la capitale albanese nel pittoresco immaginario europeo grazie al pittore ed uomo politico più rappresentativo, scansando al contempo quelle convinzioni che possano celare torri d’avorio o, nel peggiore dei casi, vere e proprie torri di babele.

Credits copertina: Foto di Ejup Lila da Pixabay

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