Europa

Intervista a Sandro Guerrieri «L’Europa deve compattarsi e rinnovarsi»

Colloquio con il professore di Storia delle Istituzioni europee sulle prospettive future dell’Unione e sul ruolo di Francia, Germania e Italia.

«Si deve insistere sull’integrazione degli stati membri aumentando l’efficacia delle istituzioni dell’Unione Europea. Solo in questo modo sarà possibile avere un’Europa veramente democratica e partecipativa».

In un periodo contraddistinto dal successo di forze populiste e dalle difficoltà dei partiti popolari e socialdemocratici, ci si interroga sul futuro dell’Europa in vista delle prossime elezioni del 2019. A tal proposito abbiamo intervistato Sandro Guerrieri, professore di Storia delle Istituzioni politiche italiane ed europee presso il dipartimento di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma, con cui abbiamo riflettuto sui principali temi di attualità politica.

In un momento in cui nuovi movimenti e partiti politici di stampo populista, in molti casi euroscettici, riscuotono successo in tutta Europa, a danno di socialdemocratici e popolari, ritiene che le istituzioni comunitarie siano abbastanza solide per resistere ad un eventuale prova di forza?

Se partiti del genere andassero al potere in paesi come Francia e Germania non penso che l’Unione Europea potrebbe reggere il colpo. Ma questa è un’ipotesi remota. Come si è visto in Francia nei momenti decisivi prevale ancora la ragione. Diversamente, se ciò accadesse in paesi come Italia o Austria i rischi sarebbero comunque consistenti, ma il contraccolpo potrebbe essere assorbito meglio e affrontato attraverso un processo di differenziazione interna dell’Unione.

Emmanuel Macron and Angela Merkel, 9 dec by Пресс-служба Президента Российской Федерации

Quindi può essere positiva un’Europa a più velocità?

Verificare i paesi più europeisti è un scelta obbligata. Su questioni come la difesa o la governance nell’area euro è necessario creare un nucleo forte e compatto.

Nonostante la capacità di rinnovamento in senso democratico dimostrata fino ad oggi, all’Europa si chiede un processo di riforma per renderla più vicina ai cittadini. Secondo lei è necessario pensare ad un nuovo modello istituzionale, ed eventualmente in quali campi?

A mio parere bisogna considerare due aspetti: da una parte sarebbe auspicabile affrontare in maniera diversa questioni decisive come il fenomeno migratorio.

Poi c’è la questione della struttura istituzionale, per la quale sono necessari miglioramenti in vista di una più efficace politica del Parlamento europeo riguardo quelle aree su cui ad oggi non ha grande voce in capitolo. Mi riferisco a temi come l’unione monetaria o la gestione della crisi finanziaria. In questi casi si è assistito ad un dibattito pubblico esclusivamente interno agli stati, il che non ha sicuramente favorito la possibilità dei cittadini di esprimersi andando oltre il proprio orizzonte nazionale.

Quale futuro in Europa vede per l’Italia, a pochi mesi dall’inizio della diciottesima legislatura?

Difficile fare previsioni. L’ipotesi più probabile è quella che nessun partito o coalizione elettorale ottenga la maggioranza assoluta e che quindi si debba arrivare ad un’alleanza di governo composita. La destra è divisa tra Salvini, che è contro l’Europa, e Berlusconi, che cerca di mantenere un profilo più moderato. Il Movimento 5 Stelle non si caratterizza certo per il suo europeismo.

Il prossimo governo dovrà muovere critiche serie ma costruttive per l’Europa, senza scendere su un terreno populista, in cui l’Italia avrebbe sicuramente molto da perdere anche a livello di rapporti inter-governativi.

Angela Merkel è impegnata da quasi due mesi nelle consultazioni per la formazione di un nuovo governo. Il rifiuto dei liberali sembra porre tre possibilità: una nuova koalition con la Spd, un governo di minoranza con i Verdi, nuove elezioni (in cui la cancelliera potrebbe non essere più la candidata). A suo parere quale ipotesi è la più probabile e perché? 

Non ce ne è una più probabile, esiste l’ipotesi di governo tra la Cdu e la Spd per la quale il leader Schulz sta ricevendo pressioni interne anche se non sembra convinto. Lo scioglimento immediato è una soluzione drastica ma è chiaro che in Germania sarebbe una novità non facile da accettare. La situazione tedesca è lo specchio di una condizione di malessere più generale. Non imputerei la colpa al sistema elettorale, che finora ha sempre garantito la governabilità.

Ritiene che le difficoltà tedesche potrebbero favorire un nuovo ruolo di guida in Europa per la Francia di Macron?

Dipende dalle difficoltà della Germania. Una Germania un po’meno forte potrebbe forse favorire un ruolo più dinamico della Francia, ma una Germania troppo debole sarebbe disastrosa anche per Macron, la cui politica si basa sul rilancio dell’asse franco-tedesco, nel quale entrambe le componenti devono essere solide.

Come valuta la proposta del presidente francese di istituire un Ministro delle Finanze europeo, e quali conseguenze porterebbe tale cambiamento?

La proposta nasce dalla constatazione che il meccanismo economico europeo previsto da Maastricht non prevedeva soluzioni per situazioni di grave crisi, come l’ultima che abbiamo vissuto. In questi anni si è percepito come il modello in vigore, imperniato sulla centralità del Consiglio Europeo e della BCE, sia inefficace e l’emblema è la gestione del caso greco.

Vi è dunque l’esigenza di maggiore efficienza e controllo democratico. Ben venga un Ministro delle Finanze accompagnato da un maggior ruolo del Parlamento nella gestione dell’economia. Un maggior rilievo del governo sovranazionale in ambito economico non deve però trasformarsi in un’arma dei paesi più forti, sostenitori del rigore, contro la politica della flessibilità portata avanti dai paesi dell’area mediterranea.

Questo mese su Polinside analizziamo la proliferazione dei populismi (clicca qui). Il primo tema affrontato è stato il populismo centrista di Macron . A tal proposito lei ritiene che possano essere rilevate analogie tra En Marche! e alcuni movimenti di stampo populista?

Il movimento En Marche! si inquadra indubbiamente nello spirito del tempo. Anche nel caso francese la critica ai partiti tradizionali può essere vista come populista. Tuttavia, alle spalle di Macron c’è anche una tradizione gaullista che non è populista. La politica interna di Macron ha molti aspetti in comune con il gaullismo, a sua volta critico verso i partiti tradizionali e favorevole, almeno nella sua ideologia iniziale (poi si è radicato saldamente a destra), al superamento delle divisioni tra destra e sinistra. Ma le analogie con il populismo finiscono qui. Quello di Macron può essere invece definito invece con un ossimoro, un “gaullismo europeista”.

Macron può essere il nuovo Schuman alla luce del suo discorso pronunciato alla Sorbona il 26 settembre?

Spero che da questo punto di vista la sua politica continui ad essere incentrata sui valori dell’Europa. La Francia storicamente ha avuto un ruolo altalenante e l’auspicio è che si ritorni a quei valori che hanno ispirato non solo Schuman, ma anche figure come Monnet, De Gasperi e Spinelli.

Qual è la sua opinione sulla proposta del Presidente francese di un esercito comune europeo? Esistono analogie con il tentativo fallito di istituire la CED del 1954?

La CED era una proposta molto radicale poiché prevedeva la nascita di forze europee che inglobavano la quasi totalità degli eserciti nazionali, con un’uniforme comune e un’indipendenza dalle nazionalità. Oggi si parla di un’integrazione efficace ma non radicale come nella CED. È positivo comunque che si riapra il dossier.

A livello istituzionale la proposta dell’esercito comune europeo sarebbe compatibile con la Nato. Le difficoltà sorgerebbero sul piano politico, con l’America di Trump e i suoi problemi con gli alleati.

Theresa May MSC 2018 by Kuhlmann / MSC

Sul fronte Brexit siamo giunti al giro di boa. Theresa May ha dichiarato ufficialmente l’uscita dall’Ue per il 29 marzo 2019, in conformità con quanto disposto dall’art. 50 del TUE. Quali ricadute positive e negative potrà avere l’uscita del Regno Unito per l’Europa e per l’Italia?

Sul piano geopolitico è sicuramente una perdita perché la Gran Bretagna è una potenza sul piano militare. Ha avuto anche delle figure europeiste – a modo loro – come Churchill. Il problema principale è che non ha mai compreso appieno il suo interesse nazionale nel rapporto con l’Europa, mantenendo sempre un atteggiamento ambiguo. La Brexit può comunque favorire un’integrazione più stretta tra i paesi europeisti, eliminando gli alibi di quei soggetti contrari a politiche progressiste, che si nascondevano dietro la Gran Bretagna per giustificare la loro posizione.

Quest’anno si sono celebrati i 60 anni dalla firma dei Trattati di Roma che istituirono la Cee. Vede analogie tra quell’epoca e quella contemporanea dal punto di vista politico-istituzionale?

La situazione è diversa perché l’Ue ha oggi un raggio d’azione che all’epoca sembrava lontano. Analogie potrebbero trovarsi nella visione di un processo incrementale, che esisteva già nella Conferenza di Messina del 1955, e che porta all’esigenza di rendersi conto che lo stato nazionale non può offrire da solo lo sviluppo necessario, ma deve integrarsi in una comunità più ampia. La globalizzazione rende ancora più attuale lo scenario politico già presente allora.

Come giudica la possibilità per le prossime elezioni europee, sostenuta dal sottosegretario Sandro Gozi, di prevedere liste transnazionali per assegnare quei seggi ad oggi attribuiti alla Gran Bretagna?

Mi trovo decisamente d’accordo perché uno dei problemi delle elezioni europee è che spesso si sono rivelate troppo condizionate da prospettive nazionali. Le liste transnazionali possono essere un passo in avanti verso una campagna elettorale e una dialettica politica veramente europea e non solo nazionale.

L’Italia è da sempre considerata un paese storicamente europeista. Da studioso della storia europea, qual è il motivo per cui il nostro paese è da sempre ritenuto uno dei maggiori sostenitori di una politica continentale comune?

Ultimamente c’è stato un calo significativo dei consensi, come dimostra la proliferazione di partiti ostili verso le istituzioni dell’Unione. Tuttavia il sentimento europeista deriva da più fattori.

In primis l’Italia ha vissuto sulla propria pelle le conseguenze del nazionalismo e della retorica nazionalista. Un’esperienza che ha favorito la nascita di anticorpi, impedendo in tal modo il riaffacciarsi di una tale prospettiva.

Successivamente l’Italia ha capito che per il proprio sviluppo, la partecipazione con paesi consolidati avrebbe offerto vantaggi economici e commerciali. Negli anni ’90 la disciplina di Maastricht di contenimento del debito pubblico, anche grazie all’allora ministro dell’economia Guido Carli, è stata vista come necessaria per il nostro paese.

L’Italia dovrebbe però accentuare il suo ruolo propositivo, senza subire soltanto condizionamenti esterni che potrebbero rivelarsi infruttuosi.

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