L’entrata in scena del populismo: l’UKIP di Nigel Farage
La legittimazione politica del populismo in Gran Bretagna ha una data ben specifica, il 22 Maggio 2014, corrispondente al giorno delle elezioni per il Parlamento Europeo. L’esito delle urne vede come primo partito, con il 27,5% dei voti e 24 seggi conquistati su 73, il Partito per l’Indipendenza del Regno Unito (UKIP) guidato da Nigel Farage.
La storia elettorale del partito fondato nel 1993 dai membri della Anti-Federalist League, organizzazione fondata nel 1991 per pressare i Conservatori su euroscetticismo e Brexit, vanta una progressione di successi dalle Elezioni Europee del 1999 (6,7%), ma è con la leadership di Farage dal 2006 che esso si afferma come principale voce inglese sulle questioni europee ma anche come forza nazionale, ottenendo il primo seggio in Parlamento nella sua storia alle elezioni politiche del 2015. Come evidenzia un interessante articolo del 2014 sul The Guardian, il successo alle Europee del 2014 e, più in generale, l’evidenza politica sempre più marcata dell’UKIP può essere ritrovata nella veste democratica, liberale e decente, di ampio respiro, con cui Farage è riuscito a rappresentare le istanze dei dimenticati dalla politica, la working class bianca e anziana che si sente oppressa dal sistema politico e straniera in casa propria, a fronte di una società sempre più multiculturale.
Cavalcando la paura di un invasione di migranti, il fallimento europeo di fronte alla crisi greca e la più generale crisi dell’Euro e della capacità politica dell’Unione Europea, Farage riesce a fare entrare l’UKIP e le istanze sociali che rappresenta all’interno del sistema politico inglese, evitando la caratterizzazione apertamente razzista che, ad esempio, spinge lo storico British National Party sempre ai margini del sistema di rappresentanza inglese, nonostante le due piattaforme siano parzialmente sovrapponibili. ‘I want the EU to end but I want it to end democratically. If it doesn’t end democratically I’m afraid it will end very unpleasantly’: è questa la frase che meglio rappresenta la politica di Farage, pronunciata in un dibattito del 2014 di fronte a Nick Clegg, leader dei Lib-Dem, che verranno svuotati di 12 punti percentuali alle Politiche del 2015 rispetto alle consultazioni di cinque anni prima. Quasi la stessa percentuale guadagnata, appunto, dall’UKIP.
La normalizzazione del populismo con la Brexit
Le elezioni Europee del 2014 e il successo dell’UKIP rappresentano una svolta per il sistema politico inglese e la necessità, per i partiti tradizionali, di affrontare la questione populista e la minaccia che esso rappresenta nei confronti dello storico bipolarismo conservatore-laburista.
La scelta di David Cameron, leader dei Tories, di improntare la campagna elettorale per il 2015 tentando di superare a destra la stessa UKIP e promettendo, quindi, di indire il referendum sulla Brexit e di dare una svolta restrittiva sulle politiche di integrazione segna l’inglobamento e il riconoscimento ufficiale da parte del sistema delle istanze populiste. E’ una scelta che elettoralmente pagherà, dal momento che i Tories guadagneranno 25 seggi in più rispetto al 2005, ma che segnerà un punto di non ritorno per l’agenda politica inglese: da una parte i Conservatori che premono sull’Unione Europea per una rinegoziazione delle condizioni di permanenza nell’UE in termini di maggior controllo sull’immigrazione e maggior potere dei governi nazionali, fino all’indizione del referendum per la Brexit per il 23 Giugno 2016; dall’altra i Labour che, divisi e divisivi per la leadership atipica di Jeremy Corbyn, dichiaratamente socialista, non riescono ad essere efficaci proprio durante la campagna elettorale per il Remain.
L’esito referendario è il coronamento di una scelta politica ben specifica, quella di affrontare le istanze populiste attraverso la loro accettazione e con un conseguente indurimento nazionalistico e protezionistico da parte dei Tories in particolare, senza che i Labour siano riusciti, almeno nella prima fase di Corbyn, a contrastare apertamente tali politiche in quanto, forse, ancora troppo legati all’epopea blairiana della Terza Via. La scomparsa dalla scena politica dell’UKIP all’indomani del referendum e le dimissioni di Farage, proprio perché era stato realizzato l’obiettivo per cui il partito era stato fondato, può essere visto come l’ulteriore suggello di questa normalizzazione populista.
La presa di coscienza collettiva dei costi dell’uscita dall’Unione Europea ha poi significato un indebolimento dei Conservatori che, alle politiche del 2017, indette dalla nuova leader del centrodestra e premier Theresa May proprio per uscire rafforzata con il sostegno popolare dall’impasse politica delle trattative per l’uscita con l’Unione Europea, hanno visto erodere di 13 seggi la loro rappresentanza all’interno del Parlamento rispetto a due anni prima. Con Cameron schierato per il ‘Remain’ e così anche la sua ministra per l’Interno poi premier, il populismo è tornato indietro come un boomerang, lasciando la May nella condizione di dover mantenere un appeal elettorale in un contesto di centrodestra ormai populista, con proclami di forza di una Gran Bretagna fuori dall’UE, e, d’altro canto, di dover tenere i Tories all’interno di quelle condizioni di accettabilità fondamentali per il sistema inglese, nei confronti dell’opinione pubblica e dell’agone politico internazionale, già sufficientemente minate dalla tenaglia della scelta politica di indire il referendum e, non ultimo, dall’attuale governo tenuto in piedi dal partito unionista di estrema destra nordirlandese, il DUP.
La terza fase del populismo: Britain First
Come si definirà la terza fase del populismo inglese sarà evidente, molto probabilmente, solo al termine delle trattative con l’Unione Europea per i termini dell’uscita della Gran Bretagna, ma è interessante notare in questo contesto l’emersione di Britain First come nuova forza di rilievo.
A differenza dell’UKIP, Britain First è un movimento e non un partito, essendo stato deregistrato dalla commissione elettorale inglese nello scorso Novembre, e non sembra avere quei tratti di decenza che hanno ammesso il Partito per l’Indipendenza all’interno del contesto politico “ufficiale” inglese. Nel suo manifesto Britain First si definisce un ‘partito patriottico inglese’, che punta a difendere l’eredità culturale ‘propriamente inglese’, i suoi cittadini ‘ormai di serie B’ e la Cristianità contro l’ideologia liberale, europeista – tra le altre –, contro la corruzione etica e morale della politica e, non ultimo, contro l’Islam (nonostante vi sia un formale ripudio del razzismo, viene proposto ad esempio il bando degli islamici dall’amministrazione pubblica). Si definisce come la ‘frontiera’ dell’orgoglio inglese e chiama a raccolta tutte e solo le persone motivate a lottare per difendere questi principi, che ‘non sono aperti al compromesso’.
E’ interessante notare come la fortuna di Britain First si stia definendo non tanto sulla proposta politica – piuttosto contraddittoria e relativa solamente, finora, a piccole battaglie di carattere locale – quanto sull’uso massivo e spregiudicato dei social, che punta a cavalcare i sentimenti anti-islamici ed anti-sistema. Una novità per il sistema politico inglese, che si rifa direttamente alla strategia di Donald Trump che, non a caso, è il punto di riferimento politico internazionale del gruppo (come emerge dalla loro pagina Facebook ufficiale) e che, non a caso, ha ritwittato un video antislamico del gruppo, entrando in polemica con Theresa May sulla lotta al terrorismo.
Sarà interessante vedere come nel prossimo futuro Britain First modificherà le istanze populiste presenti nella società inglese e come queste, considerando soprattutto la sua modernità e attualità in quanto movimento anti-sistema, verranno recepite a livello politico: se quindi il sistema inglese si trasformerà strutturalmente in senso populista o si ripenserà con nuovi strumenti e parole d’ordine per lasciare Britain First ai margini.
Credits copertina: “Nigel Farage” by Gage Skidmore