Il termine “socialdemocrazia” indica «una sorta di degenerazione dei partiti socialisti e della sinistra culminata nella possibilità a governare pragmaticamente senza neppure tentare di creare le condizioni della rivoluzione»[1].
Sebbene la definizione di Gianfranco Pasquino faccia riferimento al pensiero di intellettuali e teorici della sinistra, la storia della socialdemocrazia contemporanea non può che essere letta in correlazione con quella comunista. L’incontro-scontro tra l’area riformista e quella rivoluzionaria, anche se oggi non si può parlare in questi termini, rappresenta una chiave di lettura anche per la crisi attuale del Pd, il partito che dovrebbe rappresentare i principi progressisti e di origine socialdemocratica in Italia.
Un declino che può essere letto secondo quattro punti di vista di ordine: storico, istituzionale, ideologico e internazionale.
1. Radice storica
Innanzitutto l’Italia non ha mai avuto un vero partito socialdemocratico nella sua storia.
Le forze a sinistra sono sempre state divise tra il Psi e il Pci, con quest’ultimo che nel tempo ha aumentato sempre di più il vantaggio rispetto ai cugini socialisti, senza però mai riuscire a presentarsi come una vera e propria alternativa di governo alla Dc.
La questione fondamentale è proprio questa. Se in Francia e Germania, seppur con le dovute differenze, erano i partiti socialdemocratici a raccogliere la maggioranza dei consensi a sinistra (tanto da giungere al governo con le storiche figure del calibro di Brandt, Schmidt o Mitterrand), in Italia il Pci ha sempre mantenuto un distacco di almeno 10 punti percentuali rispetto al Psi.

Se negli anni ’60 nacquero i primi governi di centrosinistra, questi vedevano la partecipazione di socialisti e democristiani, con il Pci relegato ancora all’opposizione.
Non dimentichiamo poi che, almeno fino agli anni ’70, i comunisti si presentavano come una vera e propria forza anticapitalistica e rivoluzionaria che mirava a creare un modello di società di stampo socialista. Una prospettiva opposta a quella della Democrazia Cristiana, che riuscì a mantenere il controllo e ad escludere i comunisti dal governo.
Col tempo anche il Pci si sarebbe istituzionalizzato, con la conseguente nascita della sinistra extraparlamentare, ma la sua ideologia e i suoi legami con Mosca avrebbero sempre impedito il suo approdo a Palazzo Chigi. Il compromesso storico promosso da Berlinguer non si sarebbe mai realizzato, e la morte di Aldo Moro avrebbe chiuso la strada anche ad una possibile convergenza tra cattolici e comunisti.
Gli anni ’80 avrebbero poi portato a Palazzo Chigi il primo Presidente del Consiglio socialista della storia. Ma anche nel periodo dei governi Craxi – in cui comunque il Psi poteva contare solo sull’11% dei consensi contro il 30% del Pci – a dominare furono le dinamiche politiche interne e non un vero progetto di stampo riformista.
L’esperienza dell’Ulivo della fine degli anni ’90 – un cartel party in cui erano compresi il Pds, la sinistra del Partito Popolare e Rifondazione Comunista, dimostrò l’inevitabile irriducibilità tra le varie componenti governative. Il conflitto, come chiarisce Andrea Prossieri, si perpetrava tra «riformismo e antagonisimo», cioè tra coloro che miravano a «riforme strutturali dello Stato e del sistema economico» verso i parametri di Maastricht, e coloro che riponevano una «fiducia acritica verso un movimento radicale anticapitalista e neopacifista»[2]. Lo scontro tra queste due alternative sarebbe stato una costante del primo governo Prodi.
Insomma la storia politica italiana sembra dimostrare come non sia mai stato possibile, per ragioni di consenso e di divisione dell’area politica di sinistra, costruire un vero progetto di governo socialdemocratico di lunga durata, diversamente da quanto avvenuto in altri paesi europei.
2. Radice organica-istituzionale
Il Pd fin dalla nascita (come specificato nel manifesto fondativo), si è proposto come forza «a vocazione maggioritaria», che tende dunque a rappresentare gli interessi di tutte quelle classi sociali moderate in una visione di bipolarismo.
Se alle Politiche del 2008 il Pd non riuscì ad andare al governo (per il grande successo ottenuto dalla coalizione berlusconiana), poteva comunque contare sul 33% dei consensi in un sistema ancora sostanzialmente bipolare, in cui le due coalizioni di centrodestra e centrosinistra raccoglievano un totale di circa l’85% dei suffragi. Anche la legge elettorale, con il relativo premio di maggioranza, permetteva di indirizzare il voto verso due chiare alternative.

Nel 2013 la novità Movimento 5 Stelle ha cambiato le carte in tavola ma, grazie alla maggioranza relativa e al sostegno di alcune forze di centrodestra, il Pd ha potuto governare più o meno stabilmente per 5 anni.
La situazione politica del 4 marzo ha invece prodotto un esito diverso. La crescita dei grillini, unita alla nuova legge di carattere proporzionale, sebbene abbia impedito il definitivo tracollo della sinistra, d’altra parte ha in qualche modo favorito un voto più improntato su una scelta chiara e di rottura piuttosto che su una prospettiva moderata e di cui non erano chiari i contorni. Il voto proporzionale, si sa, permette una distribuzione del voto più frastagliata, in cui si preferisce l’equa rappresentanza alla stabilità.
In questo contesto le formazioni protagoniste della stagione del bipolarismo, Forza Italia e Pd, si sono trovate in difficoltà. Se però Berlusconi può contare su una coalizione forte (almeno dal punto di vista dei consensi), i democratici sono soli nel deserto della sinistra (con l’eccezione di LeU), e non sono più visti come una vera forza di sinistra. Un aspetto che ci conduce alla terza causa del declino.
3. I governi e il nuovo elettorato Pd
La guida degli ultimi governi e il passaggio ad un elettorato più moderato sono forse la causa principale degli scarsi risultati ottenuti dal Pd lo scorso 4 marzo.
Da una parte è sempre difficile, soprattutto in un periodo di iniziale e lenta ripresa economica, confermare o aumentare i consensi quando si è stato il principale partito di governo nella precedente legislatura. Nella storia della “seconda repubblica” non è mai accaduto.
D’altra parte gli ultimi 5 anni sono stati contraddistinti da un vero e proprio mutamento di prospettiva e di elettorato del Pd di cui il protagonista assoluto è stato sicuramente Matteo Renzi.
L’ex sindaco di Firenze, dopo le dichiarazioni iniziali sulla rottamazione, ha favorito la convergenza al centro del Pd, con l’intento di ottenere un consenso sempre maggiore da parte di quelle forze produttive ed imprenditoriali del paese.
Se inizialmente l’”homo novus” ha fatto breccia nel cuore di molti italiani, arrivando al 40% dei consensi alle famose Europee del 2014, successivamente il Jobs Act (con la parziale abolizione dell’art. 18), la buona scuola e il tentativo di riforma costituzionale sono state interpretate come scelte estranee a quella che una volta era l’ideologia del centrosinistra. Un indizio si era già avuto con l’elezione a sindaco di Virginia Raggi, quando gli unici municipi a votare il candidato del Pd Roberto Giachetti furono quelli di Roma Centro e dei Parioli.
Le unioni civili, la legge sul biotestamento e il reddito d’inclusione non sono stati sufficienti a riportare i democratici sui giusti binari, e così anche alle ultime elezioni il Pd è riuscito ad eleggere Paolo Gentiloni nel centralissimo collegio uninominale di Roma Trionfale, ma non a competere in altri quartieri più popolari (come evidenzia anche l’analisi di Mapparoma).

Insomma ad oggi la sinistra, che neanche Liberi e Uguali è riuscita a far risorgere, vive un momento di grave crisi ideologica per non aver saputo rappresentare gli interessi e i valori che da sempre la contraddistinguono. Una parte dell’elettorato semplicemente non si è riconosciuta nelle scelte attuate, ed ha preferito astenersi o dirottare il voto su altre formazioni.
4. Dinamiche internazionali e media
Al di là degli aspetti di politica interna, il tracollo della socialdemocrazia è un fenomeno che non riguarda solo l’Italia. La Spd in Germania, i socialisti in Francia i laburisti in Olanda hanno subìto un declino di consensi considerevole negli ultimi anni a vantaggio delle forze populiste e della destra radicale.
Se ogni caso presenta le sue peculiarità, è anche vero che si può osservare un trend preciso per cui le nuove forze sovraniste e spesso antieuropeiste ottengono sempre maggiori favori presso tutte le classi sociali degli Stati dell’Unione.
Sembra essere messa in dubbio la storica divisione tra destra e sinistra, tra conservatori e progressisti, e di questo fenomeno sembrano averne fatto le spese i partiti socialdemocratici, ormai costola di governi di coalizione o ridotti a percentuali non competitive con l’esclusione di alcuni casi in Portogallo o Spagna.
Tra le varie cause del successo dei cosiddetti “partiti populisti”, può essere rilevata la forte paura verso i migranti e l’avversità al rispetto dei parametri di bilancio dell’Unione (con in testa il gruppo Visegrad formato da Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia). Timori aumentati dai media che avrebbero fomentato un sentimento collettivo di protesta da parte delle classi medie e popolari coinvolte nella crisi economica degli ultimi anni.

Sembra dunque evidente che il calo del Pd, almeno in parte, sia un tassello di un più ampio mosaico di natura europea, e forse globale, in cui, anche a causa dell’opera dei media, i principi del neoliberismo e del multiculturalismo non sembrano più essere i valori dominanti in una porzione non irrilevante della popolazione.
Conclusioni
Il risultato delle ultime elezioni può dunque essere letto secondo diverse prospettive, che, per un verso, sono lo specchio di dinamiche internazionali, per un altro hanno a che fare con scelte finora infelici e che hanno condotto il partito su un binario morto (almeno fino ad ora).
Tuttavia, non arriverei ad affermare che oggi l’esperienza della socialdemocrazia, o le forze che si ispirano a questo modello, sia definitivamente tramontata; in Europa, ma soprattutto in Italia, le dinamiche di potere cambiano continuamente, e il consenso popolare è molto più fluido ed instabile rispetto al passato. D’altra parte ciò non significa che non sia necessaria una discussione ed un cambiamento di rotta che permetta al Pd di ritrovare quei principi ispiratori aggiornandoli sulla base della situazione attuale.
Un processo che non potrà prescindere dal rinnovamento di una classe dirigente che ormai è più concentrata a far valere la posizione della propria corrente in Direzione piuttosto che elaborare una politica comune vicina alle classi più bisognose. Un momento cruciale di riflessione, reso possibile anche dalla decisione di fare opposizione (per ora) al nuovo governo guidato da Lega o dal M5S.
Recupero dei valori a sinistra, ripensamento degli errori di governo e ricambio generazionale sembrano dunque essere fattori imprescindibili per una forza politica riformista come il Pd, che solo in questo modo potrà tornare ad essere competitiva. Almeno nel lungo periodo.
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[1] G. Pasquino in Il Dizionario di Politica, Torino, UTET, 2004, p. 885.
[2] A. Possieri, Un riformismo incompiuto: il primo governo Prodi in L’Italia contemporanea dagli anni Ottanta a oggi, Vol. III, a cura di S. Colarizi, A. Giovagnoli, P. Pombeni, Roma, Carocci Editore, 2014, p. 518.
Copertina: Repubblica
Founder e Creator di Polinside. Appassionato, affamato di politica e di tutto ciò che ricorda la Prima Repubblica.
Master in “Relazioni istituzionali, Lobby e Corporate Communication” alla Luiss Business School, mi occupo di corporate communication in Community.
Nel tempo libero pratico Crossfit, cucino l’Amatriciana e sogno il compromesso storico.