La socialdemocrazia è in crisi e da più parti si parla ormai di morte certa, aspettando così solo la sua scomparsa definitiva. Ma siamo sicuri che questo fenomeno abbia davvero esaurito il suo significato storico? Non volendo limitare l’analisi del problema al mero catastrofismo, nelle riflessioni che seguiranno i termini della questione verranno affrontati utilizzando piuttosto la prospettiva della trasformazione.
Uno sguardo generale
Una premessa metodologica di questo genere sembra tanto necessaria quanto dovuta, almeno per due ordini ragioni: innanzitutto i partiti socialdemocratici ancora esistono e, nonostante i crolli, conservano in Italia circa il 18% dei consensi elettorali, mentre in Europa il PSE occupa ben 189 seggi (grazie al boom di Renzi nel 2014), piazzandosi come secondo partito.


Guardando i due grafici si direbbe che la situazione, capovolgendo l’adagio di Ennio Flaiano, è sia grave che seria, ma con possibili margini di miglioramento. Tutto sembra essere però nelle mani di una classe dirigente che, incapace di reagire, sembra piuttosto subire passivamente gli effetti di una crisi esistenziale senza precedenti, rifugiandosi in una cortina di inettitudine in cui non si è più in grado di definire la propria esistenza, né una leadership convincente che possa adattarsi alle nuove esigenze comunicative, svuotando di significato la missione della socialdemocrazia: la capacità di fare sintesi.
Il riformismo di sinistra sembra aver abbandonato sè stesso, le sue ragioni essenziali, cedendo di volta in volta all’appeal delle larghe intese, paventando una “pragmaticità” che ora non ha più ragione di esistere. La questione, se presa da questo lato, rivela una contraddizione continua. Il pragmatismo a cui si fa riferimento è andato bene per un certo periodo, quando le situazioni contingenti non lasciavano altra scelta.
Ora però il passo è cambiato, lo stato di emergenza è diventato prassi, ma la socialdemocrazia non se ne è resa conto, o forse lo ha fatto troppo tardi, quando ormai aveva perso l’abilità nel prendere posizioni precise. L’assenso alle guerre cosiddette “umanitarie” è una di quelle situazioni in cui ci si sarebbe aspettato un “assalto al cielo”, ma ne hanno rivelato invece tutta la debolezza; non a caso quei conflitti sono uno dei capi d’imputazione maggiori e che hanno determinato, tra le altre cose, la fine della carriera politica di uno dei leader politici più carismatici del secondo dopoguerra, Tony Blair.
La socialdemocrazia ha abbandonato sé stessa, si diceva, abbracciando via via il neoliberismo sfrenato, assumendo come paradigma quella terza via di Blair (di cui si discuterà in uno dei prossimi articoli), adottando sotto il lemma “riformismo” decisioni che avevano sì caratteristiche riformatrici, ma in senso contrario allo spirito socialista originario.

In secondo luogo bisogna tener ben salda la storia stessa del movimento socialdemocratico che certamente nel corso della sua esistenza ha saputo resistere e superare sia le proprie contraddizioni – facendo i conti con le proprie radici marxiste- che le seduzioni totalitarie degli anni venti e trenta del novecento.
Ecco, questo è un aspetto fondamentale che merita una riflessione in più: quando si parla di superamento non si ci riferisce non solo e non tanto al lato esistenziale della questione, ma più propriamente all’ambito politico. La socialdemocrazia nel secondo dopoguerra infatti ha elaborato una proposta politica più che convincente al punto di aver guidato e accompagnato l’idea stessa di edificazione del progetto europeo. Una cosa non da poco quindi, ma anche in questo contesto il riformismo di sinistra subisce scossoni importanti, vedendosi superato dalla proposta populista.
E proprio nella battaglia campale contro il populismo che la socialdemocrazia esce pesantemente sconfitta. E qui viene il punto: il populismo avanza dove la socialdemocrazia retrocede, anche nell’ambito della geografia elettorale. Prima di approfondire la questione però è necessario un riferimento alle circostanze storiche e filosofiche che hanno prodotto il modello riformista di sinistra.
Le coraggiose origini della socialdemocrazia
Per capire cos’è e da dove arriva il modello socialdemocratico l’analisi deve essere condotta su binario essenziale: la genesi.
Scrive Karl Bracher nel 1982: “Oggi si riconoscono nella socialdemocrazia quei partiti socialisti e quelle dottrine socialiste che si dichiarano a favore della democrazia liberale pluralistica fondata sullo Stato di diritto, e sono quindi disposti alla collaborazione politica con i “partiti borghesi”, ma non rinunciano a battersi per le riforme sul terreno legale, seguendo una via “evoluzionaria” che rifiuta la violenza.
Secondo alcuni storici, tra cui lo stesso Karl Bracher, la socialdemocrazia nasce nel contesto degli anni trenta e quaranta dell’ottocento inglese. La rivoluzione industriale poneva quindi le basi per una questione sociale che prima di quel momento veniva affrontata a latere della politica, con riferimenti alla teoria malthusiana.
La svolta industriale del diciannovesimo secolo però compie il miracolo di far concentrare gli sforzi della politica non nel senso del controllo delle nascite, ma proponendo una visione senza dubbio più inclusiva che andava nel senso di una differente ripartizione delle risorse disponibili. Ci si avvicinava al novecento e ai partiti di massa.
Era il momento in cui le masse acquisivano gli strumenti culturali necessari all’affermazione di sé stesse come soggetti attivi della storia: le richieste di allargamento del suffragio, si fecero via via più pressanti e dunque anche le possibilità di rappresentanza; è così che i presupposti per la fioritura del movimento socialdemocratico si ritrovano nel socialismo pre-marxista e nel corporativismo sindacale. Se la visione escatologica marxista poneva l’accento sul momento rivoluzionario, la componente più moderata via via iniziò a staccarsi dal socialismo utopistico di Saint Simon e dal comunismo rivoluzionario per approdare ad una visione che vedeva la realizzazione del suo progetto riformistico in una cornice liberale, rifiutando definitivamente il momento della violenza rivoluzionaria. L’Obiettivo era chiaro: la realizzazione della democrazia egualitaria.

La Crisi: la socialdemocrazia è un’occasione perduta?
Quali sono state le circostanze che hanno determinato il crollo della socialdemocrazia sotto il peso di sé stessa? Secondo Piero Ignazi il problema è da imputarsi a quella terza via blaireiana che avrebbe modificato i valori sostanziali del modello sociale democratico, abbracciando la “bestia liberale” piuttosto che farsene argine. Il problema si riscontra nel tentativo tutto elettorale di farsi interprete non più della terza classe, ma delle classi medio alte: un’operazione che è evidentemente fallita.
Dopo le conquiste nel novecentesche e il relativo successo che ne era seguito durante gli anni ottanta e novanta, la sinistra ha chiuso gli occhi sulla rivoluzione culturale che dalla fine del ventesimo stravolge non solo l’occidente: il modello del mercato che si fa paradigma della società contemporanea. Chiaramente in un contesto simile non può non tornare più dirompente che mai il discorso “lavoro”. La socialdemocrazia questa questione non l’ha mai affrontata, o forse non è stata in grado di farlo, rifugiandosi in soluzioni che altri partiti politici, con una storia e un’eredità differente, hanno provveduto a fornire.
E le masse? Il potere, è bene non dimenticarlo, non ammette vuoti e le masse si sono spostate nei populismi (spesso di destra) che stanno riuscendo nell’impresa di farsi interpreti e carico della frattura, in senso metafisico, centro-periferia classificata da Rokkan. Man mano che ci si allontana dal centro infatti, il populismo trova spazio di manovra in quelle periferie oramai disabitate di politica, dando voce a quella classe operaia che paga le conseguenze del tradimento della sinistra.