E’ davvero necessaria una disciplina sul lavoro di piattaforma? Perché l’avvenire della Gig economy appartiene ai non disillusi.
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Il 18 luglio la figura del rider è stata riconosciuta contrattualmente dai sindacati e dalle associazioni dei datori di lavoro del settore trasporti. Nel merito il patto prevede tutte le tutele, salariali, assicurative, previdenziali, tipiche del rapporto subordinato e quelle contrattuali come assistenza sanitaria integrativa e bilateralità. La figura del rider era già stata introdotta nel contratto nazionale di lavoro avvenuto lo scorso 3 dicembre, la cui stesura dell’articolato, rinviata ad una successiva trattativa, si è appunto conclusa questa settimana.
Occorre anzitutto comprendere chi sono i rider, e, meglio ancora, i gig worker, di cui i rider rappresentano in Italia una fetta significativa.
Gig economy significa guadagnarsi da vivere, o integrare il proprio reddito, facendo lavori saltuari, senza contratto, solo quando viene richiesto o quando si può. In pratica, nella gig economy il lavoro si spezzetta nella singola prestazione, il singolo lavoretto che può essere di pochi minuti o di una giornata e che è l’unico ad essere retribuito (La Stampa). Lo strumento di raccordo tra le varie parti coinvolte nel processo è la piattaforma digitale (da cui i c.d. platform worker), espressione della sharing economy.
Le tecnologie digitali consentono oggi di governare processi produttivi le cui materie prime sono tra loro fungibili e senza sostanziali differenze qualitative: bisogna essere consapevoli che la fabbrica digitale, in cui è la macchina ad organizzare il lavoro, è ormai alle porte. Ma non serve a nulla essere pessimisti. L’economia delle piattaforme è infatti anche un sistema dove si possono valorizzare competenze nuove, lasciando ampi spazi di autonomia ai lavoratori, e che va a creare nuovi mercati e nuovi modelli di sviluppo sociale.
Assodato che stiamo parlando di lavoro autonomo, ossia auto-organizzato nei tempi e nei modi, servono forme di contratto flessibili dove i pilastri siano indubbiamente la previdenza e la sicurezza, delle quali deve essere l’azienda a farsi carico. L’errore però sta nel cercare di preservare il patto sociale che ha retto l’economia del Novecento.
Non si comprende dunque la soddisfazione di Luigi Di Maio, espressa rigorosamente su Facebook con un breve post, per l’accordo raggiunto tra i sindacati e le associazioni datoriali. Avrebbe invece dovuto pazientare prima di cantare vittoria. Una rigida normazione che promuove e garantisce tutele e diritti ai lavoratori delle piattaforme digitali potrebbe infatti “ingabbiare” un’attività che ontologicamente non può funzionare con regole tradizionali.
Diversa per certi versi l’esperienza della Regione Lazio che intende istituire un’anagrafe del lavoro digitale e sviluppare un sistema di consultazioni pubbliche attraverso il web, avvicinando il cittadino alle competenze necessarie nel mondo del lavoro di oggi e soprattutto di domani.
Ma quali sono appunto i bisogni che le prossime invenzioni sono incaricate di soddisfare? Questa regolamentazione favorisce il divenire?
Difficile dare una risposta univoca, sebbene la revisione delle regole d’ingaggio di tutti i soggetti coinvolti nel processo produttivo appare il primo passo da percorrere. Così come sensibilizzare i cittadini e il legislatore sull’importanza dell’utilizzo di queste nuove modalità di lavoro preservandone i valori di flessibilità.
Sarebbe forse preferibile ricorrere allo strumento dell’autodisciplina. Fissati i principi nella c.d. “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori digitali nel contesto urbano” (firmata dal Comune di Bologna, da Riders Union Bologna, dai segretari di Cgil, Cisl e Uil e dai vertici di Sgnam e Mymenu), si tratta di definire un rapporto di lavoro che non è qualificabile come subordinato, e offre un’opportunità per i lavoratori di crearsi mercato e per lo Stato di crescere sul piano della competitività.
L’auspicio è che si diffonda una vera cultura del cambiamento: intervenire non è sempre la soluzione giusta, la soluzione più vicina agli interessi di lavoratori e imprese. A cominciare da una reale rappresentanza sindacale, e tenuto soprattutto conto che gli accordi pattizi vigenti non soddisfano le esigenze della nuova frontiera della gig economy e dell’Industria 4.0. Altrimenti l’Italia continuerà ad essere un paese per vecchi che lascia i suoi talenti più giovani in balìa di se stessi e che li spinge ad espatriare.
E’ finalmente giunto il tempo di una nuova azione politica caratterizzata dalla responsabilità, e non da una “insostenibile leggerezza dell’essere digitale”.
In conclusione, potrebbe risultare pertinente il punto di osservazione di Giorgio De Rita, Direttore generale del Censis, contenuta nel 4° Rapporto Agi-Censis: «Se la realtà scava la società e ci sorprende, la forza del digitale, la moltitudine di soggetti digitalizzati, la pervadente diffusione dei media digitali ci dicono che non possiamo sederci e aspettare il fiume. Che non basta osservare il cambiamento, registrare i processi e i fenomeni della vita digitale, che la leggerezza dell’essere digitale va in buona misura sostenuta e accompagnata, investendo anche per interpretare come il fiume digitale abbia cambiato gli argini e le forme della società…e se non creiamo le condizioni per la formazione di nuove competenze e nuove opportunità rischiamo che in larga misura diventi una promessa non mantenuta».
L’onestà è la miglior politica.
Credits copertina: Photo by Brett Jordan on Unsplash