Perché il libro vincitore dell’ultimo Premio Strega si è imposto come un importante documento storico-letterario (nonostante le critiche)
Non è mai semplice affrontare avvenimenti che hanno modificato irrimediabilmente il corso della storia. Soprattutto quando si parla di un periodo così denso di significato come il passaggio dallo stato liberale alla dittatura di Benito Mussolini e al ventennio fascista.
Leggendo M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati, ci si rende conto che esiste un modo alternativo (magari meno tradizionale ma più coinvolgente) di raccontare l’ambiente e le cause che hanno portato l’Italia intera a venerare e poi a ripudiare il duce. La scelta letteraria di raccontare tali eventi in un romanzo non ha evitato a Scurati di essere oggetto di critiche da parte dello storico Ernesto Galli della Loggia, che ha definito l’opera come “il romanzo che ritocca la storia“, sottolineando imprecisioni e approssimazioni che sminuirebbero il valore del racconto.
Al di là degli errori e delle sviste contenuti in M (riconosciuti poi dallo stesso Scurati), nel libro possiamo ritrovare tre aspetti fondamentali che ci permettono di comprendere come Mussolini sia riuscito a creare consenso e a conquistare il potere in soli tre anni dalla nascita dei fasci di combattimento.
1. Il camaleonte e l’alleanza con gli industriali
Innanzitutto la natura camaleontica e trasformista del fascismo che, già dai primi anni dalla sua fondazione, si dimostra disponibile a rinnegare i propri ideali rivoluzionari pur di andare al potere. Il Manifesto dei fasci di combattimento del 1919 propaganda infatti la giornata legale di otto ore per tutti i lavoratori, i minimi di paga e “un’imposta straordinaria sul capitale a carattere progressivo, che abbia la forma di vera espropriazione parziale di tutte le ricchezze”. In generale, si tratta di un programma che intende garantire ai lavoratori e alle classi subalterne quei diritti che da tempo inseguiva in primis il partito socialista.

Tuttavia, già dal secondo congresso nazionale dei fasci di combattimento del maggio 1920, appare chiaro che le esigenze di nazionalismo e patriottismo mal si sposano con una classe proletaria abituata a pensare in termini di lotta di classe. Mussolini spinge dunque a concentrare l’attenzione sulla piccola e media borghesia, impaurita dalle minacce di una rivoluzione socialista e pronta a difendere i propri piccoli possedimenti con qualunque mezzo. È il biennio rosso, periodo in cui all’occupazione delle fabbriche e alle richieste dei braccianti, rispondono le devastazioni contro le case del lavoro e contro le organizzazioni operaie da parte dei fascisti, spalleggiati dalle forze dell’ordine e finanziati da industriali e proprietari terrieri locali.
Un cambio di rotta rispetto ai proclami del manifesto del 1919 dettato dalla fame di violenza e dall’opportunismo fascista, che permette ai seguaci di Mussolini di conquistare il favore delle classi possidenti e reazionarie del Nord Italia, e ben presto anche il consenso di tutti gli strati sociali.
“Dei piccolo-borghesi odiatori: di questa gente sarà formato il loro esercito. […] Tutta gente scossa nella propria fibra più intima da un desiderio incontenibile di sottomissione a un uomo forte e, al tempo stesso, di dominio sugli inermi. Sono pronti a baciare le scarpe di qualsiasi nuovo padrone purché venga dato anche a loro qualcuno da calpestare”. (Scurati, 2018, p. 302)

2. La perenne divisione-indecisione a sinistra
Scurati mette poi in risalto un secondo aspetto che ha contribuito all’ascesa del fascismo. La connivenza con i poteri forti e il sentimento di insoddisfazione derivante dalla vittoria mutilata non sarebbero stati sufficienti a decretare il successo di Mussolini se il partito socialista fosse stato unito e compatto. Agli ottimi risultati nelle elezioni nazionali e regionali del 1919 e del 1920 (che permettono ai socialisti di conquistare 156 parlamentari e 2162 comuni in tutta Italia), non segue quella rivoluzione tante volte promessa e mai realizzata. Al contrario il partito si divide in correnti massimaliste e moderate, la cui convivenza diventa ben presto un miraggio.
Al Congresso di Livorno nel gennaio 1921 si realizza la prima scissione della frazione comunista di Bordiga, Bombacci e Gramsci, che, adottando le 21 tesi dettate dalla Terza Internazionale, rifiutano la visione di un partito riformista rimanendo fedeli agli ideali della rivoluzione.
Ma le divisioni tra moderati e radicali continuano anche dopo la scissione di Livorno, consumandosi definitivamente nell’estate del 1922, quando l’incontro con il re al Quirinale del leader Filippo Turati (finalizzato a verificare la disponibilità dei socialisti ad un nuovo governo guidato dall’intramontabile Giolitti), viene interpretato come un tradimento verso tutto il partito. Così, al XIX congresso del Psi il successo delle tesi massimaliste porta all’espulsione di Turati, Matteotti, Treves, Saragat e Pertini, i quali danno vita al Partito Socialista Unitario. La nuova scissione precede di pochi giorni la marcia su Roma e la definitiva ascesa di Benito Mussolini.
“La conversazione politica che avete tenuto col monarca, inizio della vostra opera di collaborazione con la monarchia e con la borghesia, è la fine dei vostri rapporti di partito con noi”. (Avanti!, rivolgendosi direttamente a Filippo Turati, 30 luglio 1922, in Scurati, 2018, p.517)
3. L’intrinseca violenza del fascismo
Vi è infine un ultimo elemento che risulta chiaro nel romanzo di Scurati. Si tratta del carattere violento e antidemocratico che contraddistingue da sempre il fascismo. Una violenza che non è soltanto lo strumento utilizzato per contrastare il successo elettorale dei socialisti, ma che corrisponde ad un vero e proprio “sanguinoso desiderio di luce, una sete, un appetito” (Scurati, 2018, p.492). Mussolini si ritrova infatti ben presto a dover moderare il furore e la rabbia delle milizie fasciste e dei ras locali più agguerriti come Italo Balbo e Roberto Farinacci, che, spinti dall’insaziabile fame di violenza, mettono più volte in pericolo la posizione del partito durante le trattative politiche. È proprio su questa lunghezza d’onda che il futuro duce istituisce nel 1923 la Milizia volontaria fascista, un corpo militare parallelo all’esercito che però giura fedeltà al solo Presidente del Consiglio.

Scurati evidenzia più volte i tentativi di Mussolini di “regolamentare” la violenza e di sottometterla ad alcune regole d’ordine e disciplina. Tuttavia, nel romanzo risulta evidente come la spinta alla normalizzazione derivi soltanto dall’opportunismo politico e dal timore di perdere il controllo delle truppe. D’altronde è la stessa repulsione per la democrazia e per il Parlamento che rende il fascismo ontologicamente legato ad una concezione aggressiva e illiberale della politica.
“La democrazia ha della vita una concezione prevalentemente politica. Il fascismo è tutt’altra cosa. La sua concezione è guerriera. Le gerarchie d’ordine militare devono essere ferreamente costituite. La disciplina militare comprende quella politica. I suoi iscritti sono, prima di tutto, soldati. La tessera equivale alla piastrina di riconoscimento che si raccoglie nei fossi sui cadaveri dei soldati” (Scurati, 2018, p.687).
Se il romanzo di Scurati contiene indubbiamente imprecisioni e artifici letterari che rendono l’opera un testo non del tutto affidabile dal punto di vista storiografico, è anche vero che M aiuta a far luce sulla natura del popolo italiano e sulle origini della nostra democrazia.
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Credits copertina: benito mussolini by cactus cowboy
Founder e Creator di Polinside. Appassionato, affamato di politica e di tutto ciò che ricorda la Prima Repubblica.
Master in “Relazioni istituzionali, Lobby e Corporate Communication” alla Luiss Business School, mi occupo di corporate communication in Community.
Nel tempo libero pratico Crossfit, cucino l’Amatriciana e sogno il compromesso storico.