Il romanzo di Stefania Auci svela i segreti della Sicilia del XIX secolo, in un fenomenale intreccio di vicende storiche, politiche e familiari
Fin dai tempi dell’Odissea esiste nell’uomo un principio immutabile che smuove la sua coscienza e lo spinge ad essere “curioso”. Si tratta di quell’intrinseco bisogno di raccontare storie che siano fonte d’ispirazione per la propria vita.
In politica e in economia lo storytelling serve così a coinvolgere i cittadini durante la campagna elettorale o i consumatori in occasione di iniziative di marketing e advertising, ma il principio è sempre lo stesso: catturare l’attenzione attraverso un racconto che sia il più verosimile possibile e che rispecchi una certa idea del mondo in cui viviamo.
Partendo da questa premessa è facile comprendere perché “I leoni di Sicilia”, di Stefania Auci (Casa Editrice Nord), abbia riscontrato tanto successo, risultando il libro più venduto del 2019 secondo gli istituti di ricerca di mercato Nielsen e Gfk. L’opera racconta infatti una storia, la saga dei Florio, famiglia di origine calabrese trasferitasi a Palermo nel 1799 in un periodo di intensi cambiamenti dal punto di vista storico, economico e culturale. Sullo sfondo le vicende politiche che portano alla breve esperienza della Repubblica Napoletana, del periodo napoleonico, fino alla nascita del Regno delle due Sicilie e dell’Unità d’Italia.
Pur non possedendo un titolo nobiliare, i Florio diventano dunque i protagonisti indiscussi dell’evoluzione dell’economia siciliana, formata inizialmente da semplici “putìe” (botteghe) che lentamente si trasformano in quei primi conglomerati industriali che utilizzeranno le macchine a vapore per aumentare la produzione e ridurre i costi. Dal commercio delle spezie, che costituiva il core business del primo emporio familiare a Palermo agli inizi dell’800, si passa alla vendita di erbe medicinali, alla produzione del marsala, del tonno sott’olio, all’estrazione e al commercio dello zolfo, fino all’utilizzo delle prime macchine a vapore nella Fonderia Orotea, che servirà a produrre materiali impiegati nel comparto marittimo. Settore quest’ultimo su cui Vincenzo Florio si dedica fin dal 1840, quando fonda la “Società dei battelli a vapore siciliani”, ottenendo successivamente l’appalto per il servizio postale sull’isola.
La vicenda si svolge in un territorio aspro, quello siciliano, in cui i Borbone devono continuamente confrontarsi con gli interessi delle nobiltà locali che pretendono di mantenere i propri privilegi contro qualsiasi potere proveniente “dall’esterno”. Un sentimento, quello della “nazione siciliana”, che pervade l’intero romanzo e che unisce tutte le classi sociali, concordi nel sostenere l’autodeterminazione contro una Corona che impone forti dazi al commercio e che reprime con la violenza qualsiasi forma di protesta.

Ignazio Florio, il fratello Paolo e, successivamente, Vincenzo (il figlio di Paolo) si riconoscono solo parzialmente in questo universo, perché l’unico vero interesse a cui tutti i membri della famiglia devono sempre aspirare è il successo economico e la scalata sociale, quest’ultima necessaria per essere accettati nei salotti della nobiltà siciliana. Tuttavia, se i “picciuli” (soldi) non mancano, i Florio devono comunque sopportare una condizione di perenne subalternità che li porta ad essere considerati “facchini” venuti dalla Calabria, odiati per il loro spirito imprenditoriale e per la pretesa di voler cambiare un sistema fino a qual momento immutabile.
Ma dietro a questa storia quasi americana (lo spirito ricorda molto quel “self made man” tanto caro agli statunitensi), se ne trova un’altra parallela dal forte valore politico, che mostra come a volte l’evoluzione e il progresso di una società dipendano anche dall’opportunismo di alcuni imprenditori che, inseguendo esclusivamente i propri interessi, contribuiscono inevitabilmente ad un cambio di prospettiva del sistema economico in cui operano.
Le sfide, gli investimenti e le innovazioni introdotte nelle aziende dei Florio devono infatti continuamente scontrarsi non solo con la ritrosia al cambiamento della società siciliana del XIX secolo, ma anche con i diversi moti e rivolte del 1848 e del 1860, quando i rivoluzionari cercano di sfruttare la ricchezza della famiglia per cambiare il sistema e sfilarsi dal dominio borbonico. È proprio in queste occasioni che Vincenzo Florio riesce a mantenere vive le sue società, stringendo legami con i capi delle rivolte e i decisori politici che si susseguono in un periodo particolarmente travagliato. Nessuna morale. Solo un atteggiamento studiato e attento che permette di capire con quali persone entrare in contatto e in quale momento («bisogna sapere cosa chiedere e a chi»), tenendo bene a mente che non ci si può mai fidare veramente dei politici.

Nelle pagine conclusive è proprio Vincenzo Florio, in un acceso dibattito con la moglie Giulia, ad esprimere il suo personale rapporto con la politica:
«Giulia, per me potremmo essere governati dallo zar di Russia, e poco mi cambierebbe, mi capisci? Casa Florio non si ferma a Messina. Ciò che m’interessa è che non tocchino il mio mondo, e loro [i Savoia] invece hanno intenzione di scassare la…».
Insomma “I leoni di Sicilia” è un racconto politico, che non offre soltanto uno squarcio su una delle principali famiglie imprenditoriali della Sicilia dell’800, ma regala soprattutto una lettura delle contraddizioni della Storia, che è spesso densa di sfaccettature ed è più complessa di quanto si possa immaginare.
Founder e Creator di Polinside. Appassionato, affamato di politica e di tutto ciò che ricorda la Prima Repubblica.
Master in “Relazioni istituzionali, Lobby e Corporate Communication” alla Luiss Business School, mi occupo di corporate communication in Community.
Nel tempo libero pratico Crossfit, cucino l’Amatriciana e sogno il compromesso storico.