Dopo aver analizzato le origini che hanno determinato la crisi della socialdemocrazia europea, italiana, spagnola e tedesca continua lo speciale di Polinside sul Labour Party e la socialdemocrazia inglese: da Michael Foot a Geremy Corbyn passando ovviamente per Tony Blair.
La caduta e la ripresa
Era il 1983 e Margareth Thatcher ancora dettava le regole di un gioco che conduceva ormai da circa quattro anni e che l’avrebbe vista muoversi indisturbata per ancora sette: attrice unica in un palcoscenico pressoché vuoto.
Era il 1983 e Michael Foot, leader del Labour party, usciva dal confronto con la lady di ferro con un 27.6%: il risultato peggiore dalle elezioni generali del 1918.
Gerald Kaufman compagno di partito di Foot ebbe a dire che il programma elettorale allora delineato dal leader dei labouristi rappresentava il più lungo suicidio politico della storia.

Una responsabilità che se si attribuisse solo al brillante giornalista rischierebbe di fuorviare il discorso e impedirebbe di condurre un’analisi serena sulle cause storiche che determinarono quella sconfitta. Era l’epoca del trionfo del thatcherismo, le politiche liberiste erano viste come la panacea a tutti i mali e via via il problema della classe operaia passava in secondo piano, complice anche la trasformazione del modello produttivo stesso che vedeva la comparsa dei primi colletti bianchi: si scivolava verso un tipo di operaismo nuovo ancora tutto da inquadrare e interpretare.

New Labour-new Britain: la profezia che non si avvera
«Our party, New Labour; Our Mission, New Britain: New Labour, New Party».
Con queste parole Tony Blair chiudeva i suoi discorsi della campagna elettorale del 1997. Un manifesto politico interessante, bisogna ammetterlo: una nuova Gran Bretagna che, nelle intenzioni del giovane leader, mutava con il partito stesso. Un sodalizio che resterà saldo per diversi anni, ma che si scioglierà (tragicamente) sotto il peso delle forti ambizioni blairiste.
Denominato terza via, il sistema di pensiero che spopolava tra la Londra di Blair, la Washington di Clinton e la Berlino di Schröder proponeva la “sovrapposizione” delle posizioni socialiste con le istanze dei conservatori. Un mostro secondo alcuni, un ibrido secondo altri: pragmaticità, si diceva, un modo per approcciarsi ai moderni anni novanta, il decennio della fine della storia, della fine delle ideologie.

Fonte: Mark Wilson/Getty Images News
Un nuovo corso che si sarebbe articolato in tre punti chiave.
Globalizzazione innanzitutto: se il rapido trasferimento di conoscenze non si poteva arginare allora andava governato; in termini pratici ciò significava riforma del sistema fiscale al fine di favorire la concorrenza.
In secondo luogo la trasformazione dell’attività economica, che vedeva il passaggio dalla produzione di massa a quella intelligente, doveva essere accompagnata da una maggiore flessibilità del mondo del lavoro.
Infine bisognava lavorare ad una solida stabilità economica: si veniva dalla deregulation degli anni settanta e ottanta e quello che si chiedeva era la possibilità di muoversi politicamente in un quadro economico fisso, non in balìa del miglior offerente.
L’intenzione era chiara, riformare il sistema sociale europeo e americano: ma in che senso? Se questo impianto ad un primo sguardo poteva incontrare il favore di tutti, nella pratica significava intervenire in sfavore dei quel ceto medio che doveva essere rappresentato proprio da Blair, Clinton e Schröder. Cos’altro poteva significare “flessibilità” se non giocare al ribasso al fine di contrastare la scalata orientale nell’economia mondiale?
La terza via, sostanzialmente, diceva alla classe media che era tempo di elevarsi, puntare a quella scalata sociale che non solo non c’è stata, ma che ha svuotato le “casse” elettorali della socialdemocrazia occidentale per riversarsi in quei partiti cosiddetti “populisti” che hanno semplicemente riempito un vuoto politico.
La classe operaia, tradita dalla sinistra, che si ricolloca. A riprova di quanto detto, la tragicità sociale dei giorni che viviamo.
Jeremy Corbyn: For the many, not the few
Diamanti ha avuto a dire che gli elementi di originalità della politica di Jeremy Corbyn sono la radicalità e la parsimonia. Aggettivi senza dubbio desueti per la definizione di un politico, leader del partito laburista e quindi del principale polo d’opposizione inglese.

Fonte: Politicshome.com
La parsimonia in particolare infatti sembrerebbe scomparsa dal vocabolario della sinistra della maggior parte dei paesi europei: Blair e Schröder hanno dato, attraverso la presunta “modernità della sinistra degli anni Novanta”, uno schiaffo alla parsimonia al fine di dimostrare che anche la socialdemocrazia poteva concedersi i lussi della della borghesia. La chiave di lettura si trova nel fatto che quest’idea diventi una questione culturale.
L’errore fatale di quella socialdemocrazia, come ripetuto più volte, è stato tralasciare le necessità di coloro i quali continuano a definirsi classe operaia – si potrebbe discutere che il lavoro tipico della classe operaia sia scomparso, ma senza dubbio coloro i quali si auto definiscono appartenenti a tale ceto aumentano- lasciando scoperta una consistente fetta di popolazione , e quindi di elettorato, in tema di rappresentanza. E non dimentichiamo che il partito laburista nasce proprio dalle istanze delle Unions, sindacati che a inizio novecento entrarono in parlamento in rappresentanza dei lavoratori che faticavano a trovare leader in grado di negoziare le condizioni lavorative nelle fabbriche e nelle miniere: è evidente quindi la ragione sociale come raison d’être del laburismo inglese.
In secondo luogo c’è l’elemento della radicalità. L’attenzione di Corbyn è volta a colpire in una duplice via: il ruolo dello Stato e le privatizzazioni, l’una intimamente connessa all’altra.
Le privatizzazioni, è lampante anche nel caso italiano, sono state un fallimento: hanno creato profitto per le aziende da un lato, e disservizi dall’altro, impoverendo il “tesoro nazionale” e creando sfruttamento. Il capitale dunque ha “avuto mani più libere” nei confronti del lavoro, non migliorando né le condizioni lavorative, né il contesto sociale di partenza. A riprova di ciò la questione delle delocalizzazioni.
L’assunto da cui sembra partire Corbyn è semplice: sono tutti questi dei temi pertinenza della sinistra? Sembra di si, da qui allora anche la necessità di rifocalizzare il ruolo dello Stato, al fine di garantire regole più fair, eque e volte al profitto nazionale.
Un ultima domanda però è necessaria: l’Europa?
Bene, un ulteriore cambio di posizione a livello governativo circa il leave sembra impossibile, se non addirittura folle. Ma a Corbyn, da sempre contrario a Brexit, forse non giocherebbe a svantaggio essere svincolato dalla logica europeista, considerati anche i continui attacchi alla NATO da cui ha paventato non raramente la proposta d’uscita anche dalla coalizione atlantica.

Fonte: Wikipedia Images
Il marxista della regina con la sua proposta di radicalità, magari d’antan, sebbene dato per impossibilitato nella vittoria nelle prossime politiche del 2020, continua a mietere consensi sia in patria, sopratutto tra i giovani, sia all’estero, tra tutti coloro i quali hanno forse trovato una forma al sogno di una società in cui si lavora per tutti, e non solo per alcuni.
Fonte immagine di copertina: The Saint.Com (modificata)